Ieri, giorno 7 Luglio, si è tenuto l’incontro mensile del gruppo di lettura
La Marcia Degli Elefanti.
Dopo aver preso le ordinazioni, ciascuna commentata sarcasticamente da un cameriere che si riteneva simpatico (
spoiler: non lo era), abbiamo iniziato la discussione vera e propria del libro.
Malgrado il romanzo scelto,
“La bottega dei giocattoli” di
Angela Carter, non abbia riscontrato i gusti letterari della quasi totalità dei membri, ha comunque permesso di creare un dibattito coinvolgente che ha animato i presenti.
Ciò che ha messo d’accordo tutti è la debolezza della trama, che decolla troppo tardi, in seguito ad una lunga introduzione che poteva essere giustificata qualora il libro avesse una lunghezza di almeno 300 o 400 pagine ma che in questo caso risulta prolissa.
Il nome di
Angela Carter è associato al
realismo magico e la scrittrice è celebre per aver scritto romanzi che inglobano elementi provenienti dal mondo delle fiabe e della letteratura stregonesca.
La sua prosa risulta scorrevole, godibile, e arricchita da diversi simboli: basti pensare al vestito bianco macchiato di sangue che indica la fine dell’innocenza, il mutismo di Margaret, la moglie del tirannico zio Philip, costretta oltretutto ad indossare un collare che la inibisce nei movimenti, o ancora i burattini a grandezza naturale manovrati dai fili, passatempo preferito dello zio che faceva di tutto per manipolare i membri della sua famiglia e tenerli in pugno proprio come i suoi giocattoli di legno.
Pare che la priorità della scrittrice fosse dare risalto ai simboli e ai riferimenti, così come alle atmosfere evocate nel corso della lettura, anche se a discapito della trama.
Nel libro vengono descritte diverse scene ambientate in luoghi luridi e decadenti, e tali ambienti risultano ancora più disgustosi se contrapposti alla casa accogliente in cui precedentemente vivevano i tre orfani protagonisti.
Come ho detto all’inizio dell’incontro di ieri, ho interpretato il passaggio di Melanie dalla vecchia dimora confortevole all’appartamento sudicio della nuova famiglia come simbolo della crescita, del diventare adulti: quando si cresce, e si perde quella patina fanciullesca che edulcora ciò che vediamo attorno a noi, si inizia a vedere il mondo per com’è davvero, ovvero intriso di “sporcizia”.
Ma in tutto questo lerciume, più volte sottolineato e descritto dalla
Carter, c’è chi tra i presenti vi ha visto le tracce di un sogno e chi ha descritto alcune scene come oniriche dal momento che non riusciva a collocarle in un preciso luogo e periodo storico. Che fosse l’intenzione della scrittrice?
C’è chi ha fatto un’analisi dei riferimenti mitologici colti tra le righe del romanzo, in particolare è stata menzionata la contrapposizione tra la figura della ninfa e del tiranno; vi è anche chi ha intravisto nella scrittura di
Angela Carter dei rimandi ad altre opere della letteratura.
Ciò che è certo è che, se da un lato i simboli presenti sono ben congeniati ed evocano delle immagini dai contorni definiti, la scrittrice non ha saputo vedere gli spunti narrativi che la sua stessa penna offriva.
Sono state molte le alternative proposte, dalle più razionali (la mano mozzata che Melanie vede nel cassetto potrebbe essere la sua e simboleggiare la fine dell’innocenza; Jonathon ha ricordato a qualcuno lo zio Philip da piccolo dato che risulta ossessionato da un solo hobby e non interagisce con nessuno) alle più fantasiose (la zia è muta perché lo zio Philip le ha strappato le corde vocali e le usa per manovrare i suoi burattini; Finn era ubriaco e ha ucciso lo zio Philip, convinto fosse il cigno).
La fantasia non è certo un peccato quando si legge un’opera di
Angela Carter, tanto è vero che in alcuni momenti si può assistere al vero e proprio estraniamento di Melanie, la quale si sente come rinchiusa in una teca di vetro, passeggia per i corridoi della casa come se fossero gli antri di un castello stregato che non conosce e finisce per avere le allucinazioni; tutti comportamenti che si traducono in una risposta della protagonista alla violenza che lo zio perpetra fisicamente, ed anche attraverso vie più subdole, ai suoi familiari.
I personaggi nel loro complesso non hanno convinto al cento per cento, in particolare lo zio Philip che non ha avuto lo spessore e l’approfondimento che lo avrebbero reso di certo più interessante; oltretutto per buona parte del libro sembra fare da sfondo, quasi come gli antagonisti delle fiabe. Probabilmente l’ispirazione della
Carter fu proprio quella ma, dal momento che fin dalla trama viene menzionato uno zio paragonabile a un despota e dalla personalità ingombrante, era ragionevole supporre che la sua figura avrebbe occupato una fetta maggiore della narrazione.
Per quanto concerne il finale sembra che quasi tutti fossimo d’accordo sul fatto che risulti essere una bomba sganciata alla fine, non incoerente ma trattato in modo frettoloso; un finale, dunque, con delle potenzialità non sfruttate a dovere, così come molti elementi interessanti del libro che, con uno sviluppo più rigoroso, avrebbero reso più giustizia all’opera della
Carter.
Personalmente non mi ritengo troppo soddisfatto del romanzo poiché mi aspettavo di più, tuttavia non mi sento né di bocciare il libro né di ritenere sprecato il tempo speso a leggerlo, a differenza di quanto sostenuto da qualcun altro. Sono contento di aver conosciuto un’autrice originale e brillante come
Angela Carter e appena possibile recupererò altri suoi grandi titoli, sperando in delle esperienze di lettura più soddisfacenti.
Ringrazio tutti coloro che hanno fatto delle osservazioni e critiche costruttive sul libro, permettendo un vero e proprio scambio letterario che, secondo me, dovrebbe costituire lo scopo primario di un incontro a prescindere che il libro sia stato o meno apprezzato.
Come si dice:
nel bene o nel male purché se ne parli.