Come già scritto la volta scorsa (Ottobre 2015) non ho mai letto nulla di questo autore pur avendo avuto parecchi suoi libri tra le mani. E vediamo se questa è la volta buona!!!
E intanto vi riporto il primo capitolo del libro...
Pamplona 1976.
Capitolo 1.
SE il piano fallisce, moriremo tutti. Per l’ultima volta lo riesaminò mentalmente, in cerca di eventuali punti deboli. Non ne trovò. Era un piano audace ed esigeva un tempismo perfetto, calcolato al secondo. Se avesse funzionato, sarebbe stato un gesto spettacolare, degno del grande Cid. Se fosse fallito…
Comunque è tardi per preoccuparsi, pensò Jaime Mirò.
Questo è il momento di agire.
Jaime Mirò era una leggenda, un eroe per la gente basca e una maledizione per il governo spagnolo. Alto un metro e ottantatré, aveva un viso intelligente, con lineamenti marcati e pensosi occhi scuri. I testimoni tendèvano a descriverlo più alto di quanto fosse, più scuro, più crudele. Era un uomo complicato, un realista consapevole dei rischi che correva, un idealista pronto a morire per ciò in cui credeva.
Pamplona sembrava una città impazzita. Era l’ultima mattina della corsa dei tori, la festa di San Fermin, che si svolge ogni anno dal 7 al 14 luglio.
Trentamila visitatori provenienti da ogni parte del mondo si erano riversati nella cittadina. Alcuni con il solo intento di assistere al pericoloso spettacolo, altri per dare prova del loro coraggio facèndosi inseguire dai grossi animali pronti a caricare. Le camere di tutti gli alberghi erano state prenotate da tempo e gli studenti universitari della Navarra dormìvano negli ànditi, nelle automobili, in
piazza, perfino per strada e sui marciapiedi
I turisti affollàvano i caffè e gli hotel, assistèvano alle chiassose, coloratissime parate di gigantes di papier-màché e ascoltàvano la musica delle bande. I partecipanti alle sfilate indossàvano mantelli viola con cappucci verdi, d’oro o rosso granato. Le processioni che si snodàvano lungo le strade sembràvano fiumi variopinti; gli scoppi dei petardi che esplodèvano lungo i binari dei tram si mescolàvano al frastuono e alla confusione generale.
La folla era giunta per assistere alle corride serali, ma l’avvenimento più spettacolare era senza dubbio l’encierro, che avrebbe avuto luogo più tardi quello stesso giorno.
La sera precedente, dieci minuti prima di mezzanotte, nelle strade buie della parte bassa della città i tori avèvano lasciato i corrales de gas, ovvero i recinti che li avèvano accolti al loro arrivo, e dopo aver attraversato il ponte sul fiume avèvano raggiunto il corrai in fondo a Calle Santo Domingo, per trascorrervi la notte. Quel mattino, sul presto, sarebbero stati lasciati liberi di correre lungo l’angusta Calle Santo Domingo, chiusa da robuste staccionate di legno, e una volta in fondo alla strada sarebbero stati chiusi nei corrai di Plaza de Hemingway, per rimanervi fino alla corrìda del pomeriggio.
Dalla mezzanotte alle sei del mattino la città restava sveglia.
Troppo eccitati per dormire, i visitatori bevèvano, cantàvano e facèvano l’amore. Quelli che avrebbero partecipato alla corsa dei tori portàvano al collo la sciarpa rossa di San Fermin.
Alle sei meno un quarto del mattino le bande sciamàrono per le strade diffondendo la dolce musica della Navarra. Alle sette in punto un razzo diede il segnale: i cancelli del corrai erano stati aperti. Un fremito percorse la folla.
Qualche istante dopo un secondo razzo informò la città che la corsa era iniziata.
Seguì uno spettacolo indimenticabile. Cominciò con un suono debole, lontano, portato dal vento e quasi impercettibile, che continuò a crescere fino a trasformarsi in un assordante strepitìo di zoccoli; poi, improvvisamente, ecco apparire sei buoi e sei enormi tori. Ciascuno pesava circa settecento chili e si lanciàrono lungo Calle Santo Domingo simili a proiettili micidiali.
All’interno delle recinzioni di legno erette a ogni incrocio, centinaia di giovani dall’aria tesa e nervosa aspettàvano di dimostrare il proprio coraggio affrontando gli animali impazziti.
I tori avanzàrono al galoppo, superàrono Calle Laestrafeta, Calle de Javier, farmacias, negozi di abbigliamento e mercati di frutta, diretti verso la Plaza de Hemingway dalla folla si levàrono grida di “Ole”. Quando gli animali furono più vicini, scoppiò il caos tra i partecipanti alla corsa. L’improvvisa consapevolezza della morte che si avvicinava, sotto forma di corna aguzze e zoccoli potenti, fece sì che molti si precipitassero verso il rifugio offerto dagli anditi e dalle uscite di sicurezza.
La folla li accolse al grido di “Cobardon!”… codardi.
I pochi che inciampàrono e caddero furono subito portati in salvo.
Un ragazzino e un vecchio se ne stàvano in piedi dietro la staccionata, con il fiato sospeso di fronte allo spettacolo che si svolgeva a pochi passi da loro.
“Guardali!” esclamò l’uomo anziano. “Magnifico!”
Il bambino rabbrividì. “Tengo miedo, Abuelo. Ho paura.” Il nonno gli passò un braccio intorno alle spalle. “Si”, Manolo.
E spaventoso. Ma anche magnifico. Anch’io una volta ho corso con i tori e non c’è niente di più esaltante. Affronti
la morte e questo ti fa sentire uomo.”
Di solito i tori impiegàvano due minuti per coprire gli ottocento metri che portàvano da Calle Santo Domingo all’arena e appena entràvano nel corrai veniva sparato un terzo razzo.
Ma quel giorno il terzo razzo non esplose. Infatti si verificò qualcosa che mai era accaduto a Pamplona in quattrocento anni di corse di tori.
Mentre le bestie galoppàvano lungo la stradina angusta, una mezza dozzina di uomini con indosso i costumi colorati della feria spostò le recinzioni di legno e i tori, costretti ad abbandonare il sentiero tracciato, si riversàrono nel cuore stesso della città. Quello che pochi istanti prima era stato uno spettacolo gaio e festoso si tramutò in un incubo. Come impazziti, gli animali caricàrono gli spettatori attoniti. Il bambino e il nonno furono tra i primi a morire, scaraventati a terra e calpestati dai tori. Corna affilate squarciàrono una carrozzina, uccidendo un neonato e catapultando la madre a terra, dove fu straziata dagli zoccoli. La morte era ovunque. I tori si avventàvano contro gli spettatori inermi, travolgendo donne e bambini, trafiggendo con le lunghe corna passanti, bancarelle, chioschi, devastando tutto quanto trovàvano sul loro cammino. La gente urlava di terrore mentre lottava disperatamente per sfuggire alla furia assassina. Un furgone rosso comparve improvvisamente sul percorso dei tori, che subito si voltàrono per caricarlo. Lo seguìrono lungo Calle de Estrella, la strada che conduceva al cdrcel… la prigione di Pamplona.
Il càrcel è un tetro edificio di pietra a due piani, con le finestre protette da pesanti inferriate. Ai quattro angoli si innalzano le torrette e sul portone sventola la bandiera spagnola.
Un cancello di pietra immette in un piccolo cortile. Al secondo piano una fila di celle ospita i detenuti condannati a morte.
All’interno della prigione una guardia robusta con l’uniforme della Policfa Armada precedeva lungo il corridoio del secondo piano un sacerdote vestito con il semplice abito talare nero.
Alla guardia non sfuggì l’occhiata interrogativa che il sacerdote lanciò alla sua mitragliatrice. “Non si è mai abbastanza prudenti qui, padre. Su questo piano ospitiamo la feccia della
terra.”
Gli fece poi cenno di passare attraverso un melai detector molto simile a quelli usati abitualmente negli aeroporti.
“Mi dispiace, padre, ma è il regolamento…”
“Certo, figliolo.”
Il suono stridulo di una sirena lacerò l’aria. D’istinto, l’agente di custodia strinse con più forza l’arma.
Il sacerdote si voltò sorridendo. “Colpa mia”, spiegò, sfilàndosi la pesante catena d’argento con crocifisso che portava al collo e porgèndogliela. Quando passò, il meta! detector rimase silenzioso. La guardia restituì al sacerdote la catena e i due uomini continuàrono il loro viaggio nelle viscere della prigione.
Vicino alle celle il fetore era intollerabile.
“Padre, lei spreca il suo tempo qui”, commentò l’agente con tono filosofeggiante. “Questi animali non hanno un’anima che possa essere salvata.”
“Eppure dobbiamo tentare, figliolo.”
Ma l’altro scosse la testa. “Glielo dico io, i cancelli dell’inferno sono già aperti per accoglierli tutti e due.”
Il religioso lo guardò sorpreso. “Tutti e due? Mi era stato detto che avrei dovuto confessare tre detenuti.”
La guardia si strinse nelle spalle. “Risparmierà un po’ di tempo. Zamora è morto in infermeria questa mattina. Attacco
cardiaco.”
Parlando, avèvano raggiunto le due celle in fondo al corridoio.
“Eccoci arrivati, padre.”
Aprì una porta e si fece da parte mentre il sacerdote entrava.
Poi la richiuse e rimase in piedi nel corridoio, attento al minimo segnale di Pagina 2
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pericolo.
Il religioso si avvicinò all’uomo sdraiato sulla brandina lurida.
“Come ti chiami, figliolo?”
“Ricardo Mellado.”
Il sacerdote lo fissò. Era quasi impossibile distinguere i lineamenti dell’uomo, che aveva il viso gonfio e coperto di escoriazioni. Gli occhi pesti erano ridotti a due fessure sottili.
“Sono felice che sia potuto venire, padre”, bisbigliò il prigioniero, muovendo a fatica le labbra tumefatte.
“La tua salvezza è uno dei doveri della Chiesa, figliolo.”
“Mi impiccheranno stamattina?”
Il sacerdote gli diede un colpetto sulla spalla. “Sei stato condannato a morire mediante garrotta.”
Ricardo Mellado alzò gli occhi su di lui. “No!” esclamò.
“Mi dispiace. L’ordine è stato impartito dal primo ministro in persona.”
Gli posò le mani sulla testa. “Dime tus pecados… ” “Ho molto peccato in pensieri, parole e opere e me ne
pento con tutto il cuore.”
“Ruego a nuestro Padre celestial par la salvación de tu alma. En el nombre del Padre, del Hijo y del Espiriti* Santo…” Che stupida perdita di tempo, pensò la guardia che ascoltava fuori della cella. Dio gli sputerà in un occhio, a quello lì.
Il religioso aveva terminato. “Adios, figlio mio. Possa Dio accogliere la tua anima.”
Si avvicinò alla porta e l’agente l’aprì, poi indietreggiò, tenendo il mitra puntato contro il prigioniero. Dopo aver richiuso, si accostò alla cella attigua.
“E tutto suo, padre.”
Il prete entrò nella seconda cella. Anche quel detenuto era stato picchiato selvaggiamente. Per un lungo istante il religioso lo guardò in silenzio. “Come ti chiami, figliolo?”
“Felix Carpio.” Era un uomo robusto, aveva la barba e sulla guancia spiccava una cicatrice livida, recente, che la barba non riusciva a nascondere. “Non ho paura di morire, padre.” “Questo è un bene, figliolo. Perché è il destino che attende tutti noi.”
Mentre il sacerdote ascoltava la confessione di Carpio, un rumore sordo echeggiò nell’edificio. Era il rimbombo degli zoccoli dei tori scalpitanti e le urla della folla in fuga. La guardia tese l’orecchio, stupita. Il frastuono si avvicinava rapidamente.
“Cerchi di sbrigarsi, padre. Là fuori sta succedendo qualcosa di strano.”
“Ho finito.”
In fretta l’agente di custodia socchiuse la porta della cella e la richiuse appena il prete fu uscito. All’esterno si udì uno schianto. Il sorvegliante si voltò a sbirciare attraverso la finestra sbarrata.
“Che cosa diavolo era quel rumore?”
“Si direbbe che qualcuno voglia conferire con noi”, replicò il prete. “Può prestarmelo?”
“Prestarle che cosa?”
“Il suo mitra, porfavor.”
Così dicendo, il falso sacerdote si avvicinò al sorvegliante.
In silenzio rimosse l’estremità della grossa croce appesa al collo rivelando un lungo stilo appuntito. Con un unico, rapidissimo gesto, affondò la lama nel petto della guardia.
“Vedi, figliolo”, commentò poi, strappàndogli il mitra dalle mani ormai inerti,
“il Signore e io abbiamo deciso che non ne hai più bisogno. In Nomine Patrìs.”
Jaime Mirò si fece il segno della croce.
La guardia crollò sul pavimento di cemento. Jaime Mirò si chinò sul cadavere e, prese le chiavi, aprì rapidamente le due celle. Nella strada il frastuono stava aumentando.
“Muoviamoci”, ordinò.
Ricardo Mellado raccolse il mitra. “Sei un prete maledettamente in gamba. Quasi quasi convincevi anche me.” Tentò di abbozzare un sorriso con le labbra tumefatte.
“Vi hanno lavorato bene, a quanto pare! Ma non preoccupatevi.
Pagheranno anche per questo.”
Sostenendo i due compagni, Jaime si avviò lungo il corridoio camminando Pagina 3
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normalmente per non dare nell’occhio.
“Che cos’è successo a Zamora?”
“Le guardie l’hanno picchiato a morte. Lo abbiamo sentito urlare. Poi l’hanno portato in infermeria e hanno detto che
era morto per un attacco cardiaco.”
Si trovàrono davanti a un portale di ferro chiuso a chiave.
“Aspettate qui”, ordinò Jaime.
Si avvicinò alla pesante porta. “Io ho finito”, disse all’agente che attendeva dall’altra parte.
Il sorvegliante aprì subito. “Farà bene a sbrigarsi, padre.
Sta succedendo qualcosa là…” Non finì la frase. Un fiotto di sangue gli sgorgò dalla bocca quando Jaime lo pugnalò.
“Muoviamoci”, sibilò Jaime agli altri due.
Felix Carpio prese il secondo mitra e cominciàrono a scendere le scale.
All’esterno regnava il caos. Parecchi agenti di polizia corrèvano freneticamente qua e là, cercando di capire che cosa stesse accadendo e di arginare in qualche modo la folla terrorizzata che si riversava nel cortile nella speranza di sfuggire ai tori. Uno degli animali si stava accanendo sul corpo di una guardia in uniforme che giaceva a terra.
Il furgone rosso era parcheggiato nel cortile, con il motore acceso. Nella confusione generale, i tre uomini passàrono quasi inosservati e quei pochi che li notàrono non avèvano certo tempo di occuparsi di loro. Senza parlare, Jaime e i suoi uomini saltàrono sul retro del furgone, che partì a tutta velocità.
Gli uomini della Guardia Civil, con l’uniforme verde e i caschi di cuoio nero, cercàvano inutilmente di tenere sotto controllo la folla in preda al panico.
Altrettanto inutili furono gli interventi della polizia Armada, di guarnigione in tutti i capoluoghi di provincia. La gente si precipitava disordinatamente in tutte le direzioni nel disperato tentativo di sfuggire agli animali infuriati.
Ma in realtà il pericolo maggiore era il panico che sembrava avere travolto tutti; parecchi, soprattutto anziani e donne, furono calpestati nel parapiglia generale.
Jaime osservò sgomento quello spettacolo terribile. “Non era previsto che andasse così!” esclamò. Impotente, dovette assistere alla carneficina che in nessun modo avrebbe potuto interrompere. Poi chiuse gli occhi per non vedere.
Il furgone raggiunse la periferia di Pamplona e si diresse verso sud.
“Dove andiamo, Jaime?” chiese Ricardo Mellado.
“C’è una casa sicura fuori Torre. Aspetteremo lì finché non sarà buio, poi ripartiremo.”
Jaime Mirò guardò con compassione Felix Carpio, palesemente sofferente. “Tra poco siamo arrivati, amico mio”, disse con gentilezza.
Ma non riusciva a scacciare il ricordo del terribile spettacolo a cui aveva assistito a Pamplona.
Mezz’ora dopo giunsero in prossimità del paesino di Torre e lo costeggiàrono fino a raggiungere una casa isolata che si ergeva in un punto elevato rispetto al villaggio. Jaime aiutò i due uomini a scendere dal furgone.
“Vi verranno a prendere a mezzanotte”, li informò l’autista.
“Digli di portare un medico”, replicò Jaime. “E che si liberino in fretta del furgone.”
Entràrono in casa. Era una fattoria, semplice ma confortevole, e nel soggiorno dal soffitto a travi c’era un camino. Sul tavolo era posato un biglietto e leggendo la breve frase di benvenuto Jaime Mirò sorrise. “Mi casa es su casa.”
Sul bar erano allineate parecchie bottiglie di vino. Jaime riempì i bicchieri.
“Non ci sono parole per ringraziarti, amico mio”, esclamò Ricardo Mellado sollevando il suo. “A te.”
Jaime lo imitò. “Alla libertà.”
Il canarino chiuso nella gabbietta cinguettò. Jaime si avvicinò e per qualche istante rimase a guardarlo sbattere selvaggiamente le piccole ali. Infine aprì la gabbia, prese con delicatezza l’uccellino e lo portò davanti a una finestra aperta.
“Vola, pajarito:” mormorò. “Tutte le creature viventi dovrebbero essere libere.”