Ho letto
Il professor Unrat , di Heinrich Mann, fratello (maggiore) di Thomas.
Se il titolo del romanzo non dice nulla, assai nota è la sua trasposizione cinematografica:
L’angelo azzurro , con M. Dietrich.
Il film io non l’ho visto, ma leggendo una recensione in rete ho notato qualche discrepanza rispetto al libro. In particolare, stravolta appare la personalità del protagonista, il professor Unrat per l’appunto, la cui infelice vicenda sullo schermo verrà resa degna di compassione, quando invece pietà non se ne dovrebbe affatto provare.
Perché il vecchio Unrat è un vero e proprio despota (“la fine di un tiranno” è infatti il sottotitolo del libro) gretto, sospettoso, invidioso, cattivo e vendicativo, che trae soddisfazione dal proprio mestiere solo in quanto mezzo per esercitare la propria autorità sulla classe. Cogliere in fallo e punire gli studenti che si divertono a storpiargli il nome (Unrat, che significa spazzatura, è infatti il nomignolo che tutti affibbiano al professor Raat) è ciò che più lo gratifica, tanto da farne un’ossessione.
E di un’ossessione farà oggetto anche la giovane Rosa (Lola, nel film), canzonettista de L’Angelo Azzurro, che se da un lato renderà Unrat schiavo della passione, dall’altro fornirà al professore il destro per estendere il potere oltre la classe e rovinare la reputazione di ex allievi e concittadini con cui i conti sono rimasti in sospeso.
Sull’eventuale significato recondito della materia narrata sono state avanzate varie interpretazioni, alcune delle quali particolarmente interessanti o accattivanti, da quelle di carattere storico (Unrat rappresenterebbe la Germania ammaliata ed asservita al nazismo, qui nei panni di Rosa) a quelle di tipo psicoanalitico (la passione amorosa come meccanismo inconscio d’autodifesa contro la paura d’invecchiare).
Sotto il profilo puramente estetico il testo m’è parso tuttavia assai meno seducente e stimolante. I primi capitoli catturano infatti l’attenzione, ma il racconto si fa poi fin troppo lungo e ripetitivo. Dal punto di vista stilistico, inoltre, il confronto – inevitabile, direi – con la prosa di Thomas risulta addirittura impietoso, tanto farraginosa appare quella di Heinrich. Espressionista, è il termine usato nell’introduzione per definirla. Non so bene cosa s’intenda dire, ma a me è parsa semplicemente zoppicante, piuttosto confusa e a tratti poco scorrevole. E questo lo ritengo un limite di non poco conto, tanto che se fossi nei panni di Unrat lo giudicherei senz’altro con una certa severità, affibbiando un’insufficienza

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