A SUD-EST CI SARA' DI CERTO IL MARE
Seconda parte
Era enorme, scuro, sporco.
Le lunghe braccia ciondolavano vicino ai fianchi e le gambe, massicce ma veloci, avanzavano a grandi falcate, spostando la sabbia, che spinta dal vento aleggiava nell’aria.
Camminava svelto e si voltava spesso in dietro.
“Non mi ha ancora vista”. Disse.
Il modo in cui il mondo stava precipitando in situazioni terribili le faceva temere ogni cosa. Aveva preso l’abitudine, quando usciva di casa, di portarsi dietro un oggetto che in qualche modo, in caso di pericolo, avrebbe potuto salvarle la vita.
Era un cacciavite sottile. Invisibile se inserito nella cintura dei pantaloni.
Non l’aveva mai utilizzato, non le era mai servito, grazie al cielo.
Intuiva però che quel giorno aveva fatto bene a non lasciarlo a casa.
Vide l’uomo fermarsi, aguzzare la vista, coprirsi gli occhi dal sole con le mani, per individuare meglio l’oggetto.
“Per individuarmi meglio.” Pensò.
Vide l’uomo precipitarsi di corsa verso di lei.
Afferrò il cacciavite, rimase immobile in attesa di un segnale da parte del suo istinto di sopravvivenza.
Che fai?
Quando cominci a percepire la velocità con cui il sangue intraprende - come un fiume in piena - ogni capillare, vena, arteria, del tuo corpo. Che sembra quasi investa i muscoli e trapassi le ossa.
Cosa fai, quando poi, senti proprio sotto la pelle, quella sensazione di tremore?
Quando ti accorgi che tutto parte dalla bocca dello stomaco. Come un’esplosione silenziosa che si espande velocemente in ogni centimetro del tuo essere.
Ti prende l’anima e te la scuote.
Ti prende il cuore e te lo scuote.
Ti toglie l’aria.
Ti secca la bocca.
Ti appanna la vista.
Quando ti stringe la gola e poi scappa, tu, che fai?
“Corri”.
Abbandonò tutto dietro di se, anche la bicicletta che era troppo vicina a quello che, ormai ne era certa, sarebbe stata l’ultima persona che i suoi occhi avrebbero visto.
“Corri, corri, corri”.
Affanno.
Assassino.
Acqua.
“Corri”.
Controllo.
Cacciavite.
Cielo.
“Corri”.
Sudore.
Sangue.
Sabbia.
“Corri”.
Sorpresa.
Salvezza.
Scogliera.
“Salta”.
L’acqua era gelida. Il mare era stato clemente e non era agitato.
Lentamente ricominciava a prendere fiato, rimanendo rifugiata nell’acqua.
Respirava e tremava, per il freddo e per la paura.
In lontananza, vide l’uomo frugare nel suo zaino. Lei sapeva che non avrebbe trovato niente di valore e non se ne preoccupò.
Lo vide scartare il suo panino, abbandonarsi sulla sabbia, e mangiare.
Decise di uscire dall’acqua e avvicinarsi. Doveva tornare a casa, era bagnata fradicia, di certo si sarebbe presa una bronchite.
Decise d’ignorare l’uomo - che non sembrava pericoloso mentre mangiava- , d’ignorare lo zaino, di prendere la bicicletta e tornare a casa. Il tutto sempre mantenendo il  cacciavite nel suo pugno stretto.
«Dove stai andando?» Disse l’uomo con voce ferma, senza alzare lo sguardo.
Lei non rispose, continuava a camminare dritta verso la sua bicicletta.
«Ho detto, dove stai andando!» L’uomo si alzò in piedi, quasi urlava.
Lei si fermò, si voltò a guardarlo. Aveva il pugno ben in vista, lui si accorse del cacciavite, lo guardò per qualche secondo ma non disse nulla.
«Torno a casa.»
«Sei bagnata, ti beccherai un raffreddore. Devi asciugarti.»
Cominciava a pensare che forse quell’uomo non voleva farle del male.
Cominciò a pensare a quanto fosse subdola la paura.
Cos’è la paura, se non una distorsione della realtà? Pensava.
Nella realtà quello era solo un uomo che correva verso la sua direzione, ma la paura le faceva vedere un assassino che correva verso la sua direzione.
«Non volevo spaventarti, cercavo aiuto. Non mangio da giorni.»
«Perché?»
«E’ una storia dura da raccontare a una ragazzina giovane come te.»
«L’hai visto il mondo? C’è qualcosa più duro del mondo?» Nelle sue parole non c’era rabbia ma rassegnazione. «Me ne vado! Buona fortuna!»
«Aspetta, vado a prenderti qualcosa di asciutto!»
L’uomo cominciò a correre come una furia verso le abitazioni balneari che scorgevano in lontananza. Sembrava quasi felice nel compiere quell’azione gentile verso un’altro essere umano.
Qualcosa dentro di lei le diceva di aspettare, forse era un rischio, ma aveva messo in conto anche quello. Era uscita per cercare una storia, e quell’uomo ne portava una dentro di sé.
“Aspetterò”. Disse.
Si accovacciò su uno scoglio piatto che il sole aveva riscaldato.
Le battevano i denti, aveva il corpo in preda agli spasmi del freddo ma sapeva che il suo compito adesso era aspettare.
E come ogni volta che si trovava da sola cominciò a parlare a se stessa con la voce del suo pensiero.
So di essere una di quelle persone destinate ad aspettare. So di avere una pazienza inesauribile camuffata da un piede che traballa a terra.
Quella non è impazienza o fretta; è “continuare a muoversi così ti ricordi che sei ancora in vita”.
Che se resti immobile, così, ad aspettare c’è il rischio che tu muoia.
E non importa di quale morte. Noia. Fame. Dolore. Preoccupazione. Amore.
Non è importante, davvero.
L’importante è non morire. Aggrapparsi con tutti se stessi a un piede tremolante che ondeggia ritmicamente.
E finché lui sarà lì a tenere il ritmo, tu puoi esser sicuro di essere ancora in vita.
E niente, davvero, niente può farti paura.
Era tutto silenzio, tranne che per il rumore delle onde sulla battigia, il suono silenzioso del vento, il pigolio degli uccelli… Poi urla, spari, lamenti.
Un cane ulula, un uomo urla, un automobile si allontana in fretta.
[CONTINUA]