SINOSSI
Il postmoderno si caratterizza come la società postindustriale, in cui i computer fanno la loro apparizione. È significativo che Lyotard, descrivendo il compimento della condizione postmoderna, immagini una forma di democrazia di massa che garantisca a tutti l'accesso ai computer come accesso al sapere.
RECENSIONE
Cos'è il postmoderno
Inizialmente il testo offre pochi spunti su cosa realmente sia questo "postmoderno". Concede al lettore giusto delle brevi infarinature circa i caratteri generali. Tuttavia questo non è veramente importante perché l'autore intraprende la coraggiosa scelta di iniziare il discorso in medias res. Si apprezzano fin da subito simpatici eufemismi reali di eventi come un conduttore televisivo di una serie anni '80 che cita un testo filosofico. Tutto ciò è fantastico, sottolinea Ferraris, perché, come anticipavo una manciata di righe fa, non serve scervellarsi a capire cosa sia questo benedetto postmoderno, magari anche con termini "filosofesi"; basta immaginarselo come un nodo di connessione tra filosofia (in questo caso, filosofia moderna) e giorni nostri.
Tre grandi pilastri narrativi
Nelle prime battute del testo, viene riportata con minuziosità la tematica complessiva e si fa rifermento principalmente a tre correnti di pensiero, le quali si uniscono formando la struttura portante. Prima di tutto si ha una componente marxista, che di base è l'unione dei movimenti illuministi e idealisti, visto che in linea di massima si tratta di un "discorso emancipativo per il bene dell'umanità". Poi, com'è facilmente deducibile, le altre due sono proprio illuminismo e idealismo. Tuttavia, com'è ampiamente spiegato nel testo, queste tre ideologie vengono meno nel postmoderno, visto che ogni testa assume la propria visione dei diversi canoni. "È questa la ragione per cui l'arte non sta nelle gallerie, ma dietro ai supermercati" (facendo riferimento alla pop-art). Viviamo, dunque, nell'epoca del disincanto, nella quale la visione complessiva è frammentaria, o meglio frammentata.
Filosofia come statuto della scienza
Uno spunto di riflessione implicito viene fatto in corrispondenza al punto di connessione tra progresso scientifico e l'interrogazione filosofica. Che correlazione hanno le due materie? La domanda è altamente retorica, visto che molti scienziati, fisici, matematici, si sono rivelati essere alla base, dei filosofi. Ma chi li definisce filosofi? Non vi è in realtà un modo; una soglia da varcare per definirsi (o autodefinirsi) filosofi. L'uomo si interroga, e questo basta. Ci sono interrogazioni pertinenti ed interrogazioni (apparentemente) impertinenti. Mi è già capitato, in passato, di trattare, a cenni brevi e sconnessi, la filosofia del Novecento; in particolare quella relativistica di Einstein, che più si sposa col concetto di filosofia della scienza. Il filosofo Blaise Pascal sosteneva che alla base delle leggi che regolano l'universo, vi sono deduzione e ragionamento; ma la sostanza prima, ancestrale, oserei dire atavica, non è altri che la domanda stessa. Se prima non ci interroghiamo, non troveremo mai una risposta (non solo: non ce la prospetteremo nemmeno). Mi sento di consigliare un testo di uno dei più grandi fisici del '900, nonché Werner Heisenberg, padre della teoria quantistica, che ha scritto un trattato che discute proprio sull'intreccio di fisica e filosofia. Perfetto da affiancare alla lettura del Ferraris. Ma ancora, se non si volesse paragonare per forza la filosofia alla fisica, che lo si facesse con la matematica: lampante è l'esempio di Pitagora. Infine, se lo si volesse fare addirittura con la biologia, allora ci si potrebbe ricollegare ad esponenti come Daniel Dennet, che tra l'altro è un nostro contemporaneo. Gli spunti sono davvero illimitati.
Siate operativi, o sparite
"La ragion d'essere dell'incommensurabile non è omologia degli esperti ma una paralogia degli inventori". Difficile, anzi, difficilissima da capire come constatazione, tuttavia assume un significato specifico se la si analizza dal punto di vista logico, a partire dai termini "omologia" e "paralogia". Ma prima, cos'è l'incommensurabile? In termini scientifici, è qualcosa che empiricamente non si può misurare: dunque il significato della frase assume il senso parafrasato di: "La ragion d'essere di ciò che non può essere misurato non è data dal pensiero comune degli esperti ma da ciò che viene smentito dagli inventori." Assume un significato più comprensibile, no? Ma cosa significa esattamente? La risposta è sempre da leggere tra le righe: non è il consenso dei molti (esperti, o presunti tali) ad avviare il meccanismo della comprensione della ragion d'essere, bensì il dissenso dei pochi (innovatori). Che vuol dire tutto ciò nella pratica? Che non sarà una strategia comune a portare al progresso, bensì un'innovazione rara. Si pensi a tutte le scoperte in campo tecnologico, anche di uso comune, come il servizio streaming a pagamento (Netflix) che ha surclassato il mercato dei CD e dei Blu-ray; o se si vuole proprio andare alle basi: alla macchina di Von Neumann, che ha rivoluzionato, anzi, generato, il campo dell'informatica.
Forma valore
La teoria marxiana prende spazio lungo le righe del testo riportato dal Ferraris, che non si sbilancia nel prendere una posizione. Marx, nell'analisi della merce, rileva che essa è cosa di doppia natura: valore d'uso e valore; perciò tutto ciò che compone la forma di merce, sarà considerata come punto d'incontro tra forma di valore d'uso (manifestata dall'effettiva composizione della merce, e che quindi ricopre la vera e propria sfera sensibile) ed infatti, la forma di valore, che invece riveste il valore della merce stessa in forma sociale. Perciò ognuno sa che ciascuna merce possiede una forma valore, comune a tutte le altre, che unifica e contrasta allo stesso tempo il valore della forma di valore d'uso e di valore stessa: il denaro, che va innanzitutto codificato, riconosciuto, tarato e coniato e solo allora potrà essere adoperato come merce di scambio.
Sapere come forma più grande di potere
Non è casuale la scelta del Ferraris di celare una critica nell'elogio della corrente illuministica. Crea infatti un paradosso logico: il sapiente avrà potere, ma chi si affiderà solo al sapere, vedrà le circostanze sempre con la stessa prospettiva analitica. Il sapere è sì sinonimo di ampie vedute, ma anche di crisi (purtroppo non specificato, ma si presume interiore). La verità può essere salvezza, ma anche tristezza, ricollegandosi un po' anche al concetto di "saggio pascaliano" (la vita, dopo una determinata soglia di consapevolezza, diventa un continuo tormento). Chi usufruisce sempre della ragione, purtroppo, avrà la visione limitata da ciò che è razionale, privandosi della materia irrazionale, anzi, escludendola a priori del tutto! Ci si potrebbe abilmente collegare alla teoria romantica delle sensazioni, ma si dilungherebbe forse inutilmente. Per concludere questo paragrafo, importante, anzi, fondamentale, è il passaggio dell'autore che si sofferma una volta per tutte sulla differenza tra l'esperto (il sapiente) e il filosofo: l'esperto conosce i suoi limiti comprensivi e non si spinge mai oltre; mentre il filosofo vive la sua vita come un continuum interrogatorio.
Chi saprà?
Dilemma ricorrente del testo: se mai dovessero esserci delle informazioni riservate da conservare (e ce ne sono), chi le manterrà? A chi verrà relegato il compito di conservare tutte le varie credenziali di accesso ai vari database dove ci saranno queste ipotetiche informazioni? Le soluzioni, a mio avviso, sono due: la prima, compiere diversi test attitudinali per stabilire se effettivamente una persona è incline a mantenere segreti, considerando l'alto rango e la responsabilità che gli vengono affidati. La seconda, più drastica, è rivelare informazioni sensibili, ma false, mettendo alla prova i soggetti in esame. Troppo eccessivo? Si pensi al motivo per cui esistono leaks e fughe di notizie ma non per forza al livello governativo; anche al livello aziendale. Lo spionaggio aziendale è una realtà, l'hacking per i brevetti anche. Se il mondo è in costante competizione (si spera sana), tanto vale abituare le persone a vivere positivamente questa competizione, senza sfociare in corruzione o fuga di notizie riservate.
Quante strade ci vogliono, prima che ci sia una città?
Una simpatica metafora viene intesa a partire dal concetto implicito di "vocabolario". Viene detto, tra le righe, che ogni linguaggio è come una grande città: si parte dalle case centrali con alcuni plessici stradali, che convergono in piazze o musei, i quali poi si dirameranno nelle varie periferie, per arrivare infine alle colline, e alle montagne e all'orizzonte. Domandiamoci: il nostro linguaggio dove sta andando? La lingua è dinamica, la morfologia pure, per cui un lemma con un significato oggi, ne può assumere di diversi domani. Si pensi alla parola "mediocre": essa, in passato, assumeva il significato di un qualcosa, se non al di sopra, almeno di pari alla media; oggi invece assume il significato diametralmente opposto: un qualcosa di inferiore alla media e potenzialmente inutile. Il nostro linguaggio si evolve continuamente e basti pensare ai nuovi movimenti che pretendono in maniera arrogante di modificare il modo di parlare. Vogliano essere un esempio le varie italianizzazioni di città, Paesi e nomi comuni inglesi, o agli ultimi movimenti che impongono di abolire le varie forme di articoli determinativi per una sempre più ostentata al ridicolo parità di sessi e generi. La domanda sorge dunque spontanea: il progresso linguistico è cosa buona o cattiva? È assolutamente buona: è sacrosanto che vengano scoperti nuovi modi per chiamare nuove cose; ma arrivare a cambiare addirittura la grammatica, le basi, secondo me è paragonabile tranquillamente ad un abuso. Perché di deturpazione si tratta. Domandiamoci, nella nostra città di parole, dove siamo arrivati con le strade? Sono strade sterrate e tortuose? Sono rifinite? Sono grezze? Sono percorribili? Sono ridondanti? Sono dispersive, definite od univoche?
Paralogia e innovazione
Poco prima di valicare la metà del componimento del Ferraris, viene regalata al lettore una particolare riflessione circa la differenza tra due terminologie spesso accostate: paralogia e innovazione. La paralogia, che, in linea di massima è lontanamente paragonabile ad un'antinomia kantiana, deriva da una deduzione per contraddizione, da cui poi si stabilisce una tesi; differisce dall'innovazione (intuito), che avviene come se fosse "trascendente". Avviene per intuito e non necessariamente è preceduta dal paralogismo da cui è preceduta, a sua volta, un'antitesi. Il compito dello scienziato, in questo caso, sarebbe quello di procedere in entrambe le strade, senza né, però, cadere in contraddizione con sé stesso, né annullare ciò che i suoi colleghi avevano ricercato in precedenza. "La risposta normale del ricercatore è piuttosto: bisogna vedere, raccontate la vostra storia." (Verso una nuova legittimazione del sapere).
Il pensiero debole e il pensiero forte
Introdotto da Pier Aldo Rovatti e da Gianni Vattimo, è una terminologia con la grande responsabilità di stravolgere il concetto di pensiero: quello debole. Il pensiero debole, non è altro che un nuovo modo di approcciarsi alle problematiche etiche e filosofiche: l'idea è che il pensiero, in realtà, nell'ambita verità definitiva, non gioca alcun ruolo: è inutile. Contrariamente al concetto (implicito) di pensiero forte, ci si rifà alla filosofia antica, la quale, soprattutto in campo illuministico, si era prefissata di risolvere le problematiche con la ragione. Il giusto, a mio avviso, sta nel mezzo: non si può raggiungere una verità stabile per tutti, in alcun modo! La verità stabile è annullata dal pensiero debole quando si vuole avere l'arroganza di spacciare la propria verità per unica; viene invece annullata dal pensiero forte, quando non si è in grado di decidere nemmeno per sé stessi.
La filosofia dopo la filosofia: nuove frontiere
Quando finisce la filosofia del razionale, è inevitabile, dice il Ferraris, riportando dal Rorty, che ci si debba confrontare con quella dell'irrazionale. Non si pensi solo agli animali, dei quali non si è ancora pienamente in grado di stabilire se provino emozioni o meno; si pensi oltre. Nella letteratura moderna (ed è importante introdurre il concetto al livello letterario) in epoche molto recenti, si è iniziato a parlare di "etica robotica", la quale ha il suo precursore, che è Isaac Asimov. A lui si devono tutte le leggi morali sulla robotica, che non sto qui a ribadire per paura di andare fuori tema. Ciò che è importante capire, tuttavia, è che non esiste solo la filosofia del "reale e razionale". Vi sono anche altre due accezioni: irreale e irrazionale, per un totale di quattro combinazioni, che seguono: Irreale-Razionale; Irreale-Irrazionale; Reale-Irrazionale; Reale-Razionale. Questo schema può servire per sapersi orientare nei vari fenomeni e per poterli classificare.
Cos'è realmente il postmoderno
Dopo aver posto le basi su ciò che a grandi linee tratta il libro, sento di dover iniziare a discutere su ciò che veramente sia la cultura postmoderna. Perché sì, da un lato, è bello e semplice definire questa corrente come punto di connessione tra filosofia e realtà contemporanea; ed alla fine, lo è. Tuttavia, il libro offre uno spunto che mi ha fatto particolarmente riflettere, rispetto agli altri: viene infatti assegnata alla cultura postmoderna, l'accezione di "incredulità nei confronti delle metanarrazioni". Quest'ultimo termine, desueto per un ragazzo di diciassette anni (e del quale, lo ammetto, ho dovuto documentarmi), assume un significato importantissimo che, almeno a me, ha fatto assumere una prospettiva diversa durante la lettura del libro. La metanarrazione è una tecnica letteraria, che già (senza essere esperti di morfologia) ci lascia intendere sia qualcosa che va oltre la narrazione. Ed in effetti, è così: una metanarrazione non è altro che un intervento da parte dell'autore di un libro, o di un regista di un film. Esempio lampante: Manzoni coi "Promessi Sposi". Dunque, dove sta la questione? Molto semplicemente, siamo disabituati alla personalizzazione delle cose che abbiamo intorno. È un tema che prende molto le distanze al lato romantico di ciò che ci circonda: ora si può capire perché Lyotard fa molti riferimenti e paragoni alla corrente marxista, che tra l'altro è tutt'altro che personalizzabile, come abbiamo visto quando si è parlato di forma valore e dei pilastri che la fondano. Siamo sempre più abituati all'apatia, ad una noia quasi leopardiana, che è uno dei sentimenti che differenzia l'uomo dalla bestia. Il progresso, inevitabilmente, condurrà l'uomo sempre più verso prodotti in serie, senza una storia, ma con una semplice sequenza di numeri, che identificano data di produzione, materiale e data di scadenza. Se posso dare un consiglio a tutti coloro che si approcciano a questa realtà; provate a inventare storie, collegamenti, ricordi... non lasciate che il mondo diventi anonimo e incolore: coloratelo! Questo è ciò che ho compreso dalla celata critica, mutata in anonimo commento che fa il Ferraris molto abilmente, non scomponendosi quasi mai.
Lyotard (Versailles, 1924). Studia a Parigi, dove ottiene l'abilitazione in filosofia. Nel 1954 si unisce a "Socialisme ou Barbarie", ovvero un'organizzazione politico-filosofica marxista libertaria francese. Negli anni seguenti, rilascia la Fenomenologia, che allarga lo studio dell'omonima materia allo studio delle scienze umane, alla psicoanalisi freudiana e al marxismo. Man mano che acquisisce notorietà, l'autore decide di dedicarsi alla ricerca e ottiene il dottorato con la tesi "Discorso, figura", dove vengono analizzate le relazioni tra linguaggio ed immagine in ambito artistico. Diviene assistente, prima a Vincennes, poi si sposta negli atenei statunitensi. Nel 1979 pubblica la sua opera più nota: "La condizione postmoderna", che introduce una caratteristica fondamentale nell'analisi della società contemporanea. Muore a Parigi nel 1988, ammalato di leucemia.
Considerazioni personali
Non nego che leggere questo libro sia stato per me un nuovo inizio: non avendo mai letto testi di questo genere, il mio approccio è stato un po' titubante. In diversi passaggi ho dovuto acuminare la concentrazione e sono convinto che mi sia comunque sfuggito qualcosa. Testi come questi vanno letti più di una volta, a mio avviso. Non posso dire che la forma di spiegazione mi sia piaciuta più di tanto. Non voglio essere frainteso, però: non sto dicendo che il testo pecca di argomenti ed argomentazioni; assolutamente! Purtroppo, sarò ignorante io, ma trovo insensato che vengano usati termini volutamente complicati per spiegare concetti già complicati alla base; tuttavia, comprendo che questo testo sia rivolto ad una cerchia ristretta, ma mi dispiace che venga relegata la comprensione solo a chi è avvezzo ai termini. Nonostante ciò, l'autore riesce a tornare sui concetti diverse volte, mettendo e mettendosi intelligentemente in discussione: si denota una spiccata apertura mentale e sicurezza negli argomenti. Abituato al classico romanzo, e non avendo un filo conduttore (esplicito) da seguire, più volte mi è capitato di perdermi nei voli pindarici del Ferraris e ho trovato la necessità di rileggere pagine. Ma questa volta la colpa è mia, che spesso e volentieri mi distraevo e perdevo il filo: fortuna che sul finale il Ferraris riassume e schematizza il testo alla perfezione, ricordando e precisando sempre che il suo testo prende spunto anche da altri autori, quali Pier Aldo Rovatti, Giovanni Vattimo, Richard Rorty ed ovviamente Jean-François Lyotard. Il verdetto è che secondo me il libro va riletto, più e più volte. Non sono così arrogante da stabilire che una sola lettura basti per comprenderlo a fondo. Tuttavia il primo impatto è decisamente positivo; più che altro, incuriosisce molto. E cosa, se non la curiosità, spinge l’uomo verso la conoscenza?
[RECENSIONE A CURA DI PAKO]
| Autore | Maurizio Ferraris |
| Editore | Gedi |
| Pagine | 159 |
| Anno edizione | 2019 |
| Collana | Capire la filosofia |
| ISBN-10(13) | 9771826868372 |
| Prezzo di copertina | 5,90 € |
| Categoria | Realistico - Cronaca - Saggi - Biografia |

