Mercoledì, 31 Dicembre 2025

Scelta del Libro del Mese di Settembre 2018

Sondaggio: Scelta del Libro del Mese di Settembre 2018 (terminato il )

La camera azzurra
10 37%
Il racconto dell'ancella
13 48.1%
Michelangelo. Io sono fuoco
4 14.8%
Numero votanti: 27 ( Reba91, Ayden, Rory, Bilbo Baggins, anormalwheelchairgirl ) Visualizza altro
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04/08/2018 21:31 #37643 da Bibi
Buonasera Club, stasera voglio lasciarvi l'anteprima de "La camera azzurra" che IBS rende disponibile. Nei prossimi giorni farò la stessa cosa con gli altri due libri, così sarà più facile fare una scelta.

Ho scelto di inserirlo nelle proposte perché trovo che sia un libro adatto a questo mese caldo. C'è la passione amorosa, il mistero e le pagine non sono troppe. Se è come penso (e spero sia così) sarà un libro intenso da divorare in qualche giorno.
Non ho mai letto Simenon e anche nel Club non è molto citato, ho visto che c'è qualche conversazione su "letteratura francese" per cui ho deciso di inserirlo nella rosa dei libri in modo da farne la conoscenza insieme a voi.
Cosa potrebbe dare al Club? Non lo so! :silly: Probabilmente tante emozioni, l'immersione totale in una vicenda che non ci appartiene e che si rivelerà sicuramente forte. Potremmo riflettere sulle relazioni, sul bisogno di tradire o di uccidere per amore. Oppure potremmo solo godere sotto l'ombrellone di questa storia... :laugh:

«Ti ho fatto male?».
«No».
«Ce l’hai con me?».
«No».
Era vero. In quel momento tutto era vero, perché viveva ogni cosa così come veniva, senza chiedersi niente, senza cercare di capire, senza neppure sospettare che un giorno ci sarebbe stato qualcosa da capire. E non solo tutto era vero, ma era anche reale: lui, la camera, Andrée ancora distesa sul letto sfatto, nuda, con le gambe divaricate e la macchia scura del sesso da cui colava un filo di sperma.
Era felice? Se glielo avessero chiesto, avrebbe risposto di sì senza esitare. Non gli passava neanche per la testa di avercela con Andrée perché gli aveva morso il labbro. Faceva parte dell’insieme, come tutto il resto.
In piedi, anche lui nudo, davanti allo specchio sul lavandino, si tamponava la bocca con un asciugamano imbevuto d’acqua fredda.
«Tua moglie ti chiederà spiegazioni?».
«Non credo».
«Ma a volte qualche domanda te la fa, no?».
Le parole contavano poco. Parlavano così, per il puro piacere di parlare, come succede dopo l’amore, quando il corpo è ancora eccitato e la testa un po’ vuota.
«Hai una bella schiena».
L’asciugamano era punteggiato di macchie rossastre. In strada un camion vuoto sobbalzava sul selciato. Dai tavolini del bar dell’albergo giungeva un vocio confuso, a tratti si riuscivano a distinguere alcune parole, ma slegate l’una dall’altra, cosicché il senso della frase risultava incomprensibile.
«Mi ami, Tony?».
«Penso di sì...».
Scherzava, ma senza sorridere, per via del labbro inferiore che continuava a tamponare con l’asciugamano inumidito.
«Non ne sei sicuro?».
Si girò a guardarla e gli fece piacere vedere quel seme, il suo seme, così intimamente mischiato al corpo di lei.
La camera era azzurra, di un azzurro – aveva notato un giorno – simile a quello della liscivia. Un azzurro che lo riportava all’infanzia, ai sacchetti di tela grezza pieni di polvere colorata che sua madre diluiva nella tinozza del bucato prima di risciacquare la biancheria e stenderla sull’erba scintillante del prato. A quel tempo lui doveva avere cinque o sei anni, e si chiedeva come mai una polverina azzurra potesse ridare il bianco ai tessuti. Gli sembrava un miracolo.
In seguito, quando la madre era morta da un pezzo e ormai i tratti di quel viso familiare cominciavano a svanire dalla sua memoria, si era anche chiesto perché la povera gente come loro, nonostante gli abiti rattoppati, attribuisse tanta importanza al candore della biancheria.
Era a questo che stava pensando in quel momento? L’avrebbe capito soltanto dopo. L’azzurro della camera non somigliava solo al colore della liscivia, ricordava anche il cielo di certi caldi pomeriggi d’agosto, prima che il tramonto lo tinga di rosa e poi di rosso.
Perché era proprio un tardo pomeriggio di agosto, più precisamente erano le cinque del 2 agosto, e sul tetto della stazione, la cui facciata bianca era immersa nell’ombra, cominciava a far capolino qualche nuvola dorata, leggera come panna montata.
«Ti piacerebbe passare con me il resto della tua vita?».
Registrava automaticamente le parole di Andrée senza prestarvi una particolare attenzione. Non più di quanto facesse con le immagini o gli odori. Come poteva sapere che avrebbe rivissuto quella scena decine e decine di volte? E sempre in uno stato d’animo diverso, da un punto di vista diverso...
Per mesi si sarebbe sforzato di ricordare ogni minimo dettaglio. Non tanto di sua spontanea volontà, ma perché altri l’avrebbero costretto a farlo.
Il professor Bigot, per esempio, lo psichiatra incaricato dal giudice istruttore, gli avrebbe chiesto con insistenza, spiando ogni sua reazione:
«Andrée la mordeva spesso?».
«È capitato».
«Quante volte?».
«Ci siamo incontrati solo otto volte in tutto, all’Hôtel des Voyageurs».
«Otto volte in un anno?».
«In undici mesi... Sì, undici, visto che la cosa è iniziata a settembre...».
«Quante volte l’ha morso?».
«Tre, forse quattro».
«Durante il rapporto?».
«Mi pare... Sì...».
Sì... No... Quel giorno, in realtà, era successo dopo, quando si era staccato da lei per girarsi su un fianco a guardarla con gli occhi socchiusi, incantato dalla luce che li avvolgeva.
Fuori, nella piazza della stazione, l’aria era torrida. Il sole batteva in pieno sulla camera, ed era così ardente, di un calore così vivo che sembrava quasi di sentirne il respiro anche all’interno.
Tra le persiane, che Tony non aveva chiuso del tutto, restava una fessura di una ventina di centimetri. Dalla finestra aperta giungevano i rumori della cittadina, alcuni confusi, quasi un coro lontano, altri vicini e distinti, ben riconoscibili, come le voci dei clienti seduti al bar di sotto.
Poco prima, mentre si abbandonavano freneticamente all’amore, quei rumori arrivavano sino a loro fondendosi con i loro corpi, la loro saliva, il loro sudore, con il candore del ventre di Andrée e il colore più scuro della pelle di lui, con la losanga di luce che tagliava in due la stanza, con l’azzurro delle pareti, un riflesso danzante sullo specchio e l’odore dell’albergo. Un odore che sapeva ancora di campagna, in cui si mescolavano gli effluvi del vino e dei liquori serviti nel salone all’entrata, dello stufato che cuoceva a fuoco lento in cucina, del materasso di crine vegetale un po’ ammuffito.
«Come sei bello, Tony».
Glielo ripeteva a ogni incontro, mentre lei rimaneva distesa e lui andava su e giù per la camera cercando le sigarette nella tasca dei pantaloni buttati su una sedia impagliata.
«Perdi ancora sangue?».
«No, quasi più niente».
«E che le dici se ti chiede qualcosa?».
Lui aveva alzato le spalle: non capiva perché Andrée si preoccupasse tanto. Nulla, in quel momento, gli pareva importante. Si sentiva bene, in armonia con l’universo.
«Le dirò che ho sbattuto... Contro il parabrezza, per esempio. Una frenata brusca...».
Si era acceso una sigaretta, e gli sembrava che avesse un gusto particolare. Ricostruendo quella conversazione, si sarebbe poi ricordato di un altro odore, quello dei treni, riconoscibile fra tutti. Un convoglio merci faceva manovra nella zona riservata al traffico locale, e la locomotiva lanciava ogni tanto un breve fischio.
Il professor Bigot – un ometto magro, rosso di capelli e con le sopracciglia folte e arruffate – avrebbe insistito:
«Non ha mai pensato che lo facesse apposta a morderla?».
«Perché?».
In seguito, l’avvocato Demarié, il suo difensore, sarebbe tornato alla carica.
«Penso che questi morsi potrebbero giocare a nostro favore...».
Ma, ancora una volta, come gli sarebbe potuta venire in mente una cosa del genere, allora, in un momento in cui era occupato solo a vivere? Se anche aveva pensato qualcosa, non se n’era reso conto. Rispondeva ad Andrée senza riflettere, a fior di labbra, in tono leggero, svagato, convinto che quelle parole buttate lì non avessero alcun peso, e dunque non lasciassero traccia.
Un pomeriggio – era il loro terzo o quarto appuntamento – Andrée, dopo avergli detto che era bello, aveva aggiunto:
«Sei così bello che mi piacerebbe fare l’amore con te davanti a tutti, in mezzo alla piazza della stazione...».
Tony era scoppiato a ridere, ma senza sorprendersi. Neanche a lui dispiaceva mantenere un certo contatto col mondo esterno mentre erano l’uno nelle braccia dell’altro, percepire i suoni, le voci, le variazioni di luce, perfino il rumore dei passi sul marciapiede e il tintinnio dei bicchieri ai tavolini del bar di sotto.
Un giorno che era passata la banda si erano divertiti a fare l’amore a tempo di musica. Un’altra volta era scoppiato un temporale e Andrée aveva insistito perché spalancasse la finestra e le persiane.
In fondo era un gioco, e lui non ci aveva visto nessuna malizia. Lei era nuda, sdraiata di traverso sul letto, in una posa volutamente lasciva. Lo faceva apposta, appena chiusa la porta della camera, a mostrarsi quanto più impudica possibile.
Capitava che, una volta spogliati, Andrée mormorasse con una falsa innocenza che faceva anch’essa parte del gioco:
«Io ho sete. E tu?».
«No».
«Tra poco l’avrai. Chiama Françoise e dille di portarci da bere...».
Françoise, la cameriera, era una donna sulla trentina. Abituata a servire nei bar o negli alberghi da quando aveva quindici anni, ormai non si stupiva più di niente.
«Desidera, signor Tony?».
Lo chiamava così perché era il fratello del proprietario, Vincent Falcone, il cui nome stava scritto sull’insegna e la cui voce echeggiava dal bar.
«Non si è mai chiesto se questo atteggiamento mirasse a raggiungere uno scopo preciso?».
Ciò che stava vivendo – una mezz’ora, ma neanche... qualche minuto della sua esistenza – sarebbe stato frammentato in singole immagini, in suoni isolati, sarebbe stato passato al setaccio, e non solo dagli altri, pure da lui.
Andrée era alta. A letto non si notava, ma superava Tony di tre o quattro centimetri. Nonostante fosse del posto, aveva i capelli scuri, quasi neri, come una francese del Sud o un’italiana: un bel contrasto con la pelle bianca e liscia, che sotto la luce sembrava cangiante. Aveva un corpo opulento, le forme piene, le carni – soprattutto i seni e le cosce – morbide e sode.
Tony aveva conosciuto molte donne nei suoi trentatré anni, ma nessuna gli aveva procurato lo stesso piacere di Andrée. Un piacere assoluto, animalesco, senza secondi fini, e mai seguito da disgusto, disagio o stanchezza.
Al contrario! Dopo due ore di intenso godimento dei corpi, restavano nudi l’uno accanto all’altra, protraendo l’intimità fisica, assaporando l’armonia che si era stabilita non solo tra loro, ma anche col mondo circostante.
Tutto aveva un peso e un significato in quell’universo vibrante, perfino la mosca che si era posata sul ventre di Andrée e che lei guardava con un sorriso appagato.
«Davvero potresti vivere con me tutta la vita?».
«Certo...».
«Sul serio? Non avresti un po’ paura?».
«Paura di che?».
«Riesci a immaginare come passeremmo le giornate?».
Anche quelle parole sarebbero riemerse, così leggere allora, così minacciose a distanza di qualche mese.
«Finiremmo con l’abituarci» aveva mormorato lui senza riflettere.
«A che cosa?».
«A noi due».
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04/08/2018 23:19 #37644 da Graziella
Risposta da Graziella al topic Scelta del Libro del Mese di Settembre 2018
Ho postato su parliamo di libri sotto la categoria noir, gialli etc. una lista di romanzo di Simenon già letti da me. sono tutti molto interessanti. Simenon è stato un grande scrittore, anche se nel club se ne è parlato poco.

"ESSERE! ESSERE E' NIENTE. ESSERE E' FARSI".
(Da "Come tu mi vuoi" di Pirandello)
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05/08/2018 13:47 #37647 da a.dalbis
Risposta da a.dalbis al topic Scelta del Libro del Mese di Settembre 2018
Ho votato la biografia di Michelangelo. Mi intriga!!
I seguenti utenti hanno detto grazie : Bibi
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07/08/2018 10:58 #37654 da Bibi
Buongiorno, Club! Eccomi con l'anteprima che IBS offre gratuitamente del nostro libro candidato a Libro del Mese "Il racconto dell'ancella" di Margaret Atwood.

L'ho scelto perché anche se viene attribuito al genere fantastico credo che i temi trattati siano invece molto reali. Della descrizione mi ha colpito molto questa frase: "Mito, metafora e storia si fondono per sferrare una satira energica contro i regimi totalitari. Ma non solo: c'è anche la volontà di colpire, con tagliente ironia, il cuore di una società meschinamente puritana che, dietro il paravento di tabù istituzionali, fonda la sua legge brutale sull'intreccio tra sessualità e politica. Quello che l'ancella racconta sta in un tempo di là da venire, ma interpella fortemente il presente." Se questo libro dovesse vincere sicuramente non mancheranno gli spunti di riflessione, soprattutto da parte delle donne.

1
Si dormiva in quella che un tempo era la palestra. L’impiantito era di legno verniciato, con strisce e cerchi dipinti, per i giochi che vi si effettuavano in passato; i cerchi di ferro per il basket erano ancora appesi al muro, ma le reticelle erano scomparse. Una balconata per gli spettatori correva tutt’attorno allo stanzone, e mi pareva di sentire, vago come l’aleggiare di un’immagine, l’odore acre di sudore misto alla traccia dolciastra della gomma da masticare e del profumo che veniva dalle ragazze che stavano a guardare, con le gonne di panno che avevo visto nelle fotografie, poi in minigonna, poi in pantaloni, con un orecchino solo e i capelli a ciocche rigide, puntute e striate di verde. C’erano state delle feste da ballo; la musica indugiava, in un sovrapporsi di suoni inauditi, stile su stile, un sottofondo di tamburi, un lamento sconsolato, ghirlande di fiori di carta velina, diavoli di cartone e un ballo ruotante di specchi, a spolverare i ballerini di una neve lucente.

Sesso, solitudine, attesa di qualcosa senza forma né nome. Ricordo quello struggimento per qualcosa che stava sempre per succedere e non era mai la stessa cosa, come le mani che c’erano addosso lì per lì, nel piccolo spazio dietro la casa, o più in là nel parcheggio, o nella sala della televisione col sonoro abbassato e soltanto le immagini, guizzanti sulla carne tesa. Ci struggevamo al pensiero del futuro. Come l’avevamo appresa, quella disposizione all’insaziabilità? Era nell’aria; e restava ancora nell’aria, un pensiero persistente, mentre si cercava di dormire, nelle brande militari che erano state disposte in corsie, con molto spazio tra l’una e l’altra, così che non si potesse parlare.

Avevamo lenzuola di flanella leggera, come i bambini, e vecchie coperte di quelle in dotazione all’esercito, ancora con la scritta US. Ripiegavamo i nostri abiti per bene e li riponevamo sugli sgabelli ai piedi del letto. Le luci venivano abbassate ma non spente. Zia Sara e Zia Elisabetta vigilavano, camminando avanti e indietro; avevano dei pungoli elettrici di quelli che si usano per il bestiame agganciati a delle cinghie che pendevano dalle loro cinture di cuoio.

Niente pistole, però, neanche a loro venivano affidate le pistole. Le pistole erano per le guardie, scelte a questo scopo tra gli Angeli. Alle guardie non era permesso entrare nella casa se non vi erano chiamate, e a noi non era permesso uscirne, tranne che per le nostre passeggiate, due volte al giorno, due per due, attorno al campo di calcio che adesso era cintato da una rete metallica bordata di filo spinato. Gli Angeli stavano dall’altra parte, voltati di schiena verso di noi. Erano oggetto di paura per noi, ma anche di qualcos’altro. Se solo ci avessero guardato. Se solo avessimo potuto parlare con loro. Si sarebbe potuto stabilire uno scambio, pensavamo, un accordo, un baratto. Avevamo ancora il nostro corpo. Erano queste le nostre fantasie.

Avevamo imparato a sussurrare quasi impercettibilmente. Nella semioscurità potevamo allungare le braccia, quando le Zie non guardavano, e toccarci le mani attraverso lo spazio tra un letto e l’altro. Leggevamo il movimento delle labbra, con le teste posate sul cuscino, girate di lato, osservando l’una la bocca dell’altra. In questo modo ci eravamo scambiate i nostri nomi, di letto in letto:

Alma. Janine. Dolores. Moira. June.

2
Una sedia, un tavolo, una lampada. Sopra, sul soffitto bianco, un motivo ornamentale in rilievo a forma di ghirlanda, e, al centro, un buco riempito di calce, come la cicatrice in un viso cui sia stato tolto un occhio. Lì doveva esserci un lampadario, un tempo. Hanno eliminato ogni cosa cui si possa legare una corda.

Una finestra, due tendine bianche. Sotto la finestra, un sedile con un piccolo cuscino. Quando la finestra è aperta, in parte (si apre solo in parte), l’aria entra e fa muovere le tendine. Posso sedere sulla sedia, o sul sedile della finestra, con le mani in grembo, e guardare. Anche il sole entra dalla finestra e cade sul pavimento che è di legno, a listelli, ben lucidato. Sento l’odore della cera. C’è un tappeto ovale sul pavimento, fatto di stracci intrecciati. Questo è il genere di cose che a loro piace: arte folclorica, arcaica, cui si dedicano le donne, nel loro tempo libero, utilizzando cose che non servono più. Un ritorno ai valori tradizionali. Non sprecare e non ti mancherà niente. Io non ho sprecato. Perché mi mancano tante cose? Alla parete sopra la sedia, un quadro, incorniciato ma senza vetro: è una riproduzione, un mazzo di giaggioli blu dipinti ad acquerello. I fiori sono ancora permessi. Mi chiedo se ognuna di noi ha l’identico quadro, l’identica sedia, le identiche tendine bianche. È un ordine del governo?

Considera di essere sotto le armi, diceva Zia Lydia.

Un letto, a una piazza. Materasso semiduro, coperto da un copriletto bianco di lana. Null’altro avviene nel letto che il dormire; o il non dormire. Cerco di non pensare troppo. Al pari di altre cose, adesso, il pensiero dev’essere razionato. Ci sono pensieri che diventano intollerabili quando ci si sofferma troppo. Il pensare può nuocere, e io sono decisa a resistere. So perché non c’è il vetro sull’acquerello di giaggioli blu, e perché la finestra si apre solo in parte, e perché è di cristallo infrangibile. Non temono che ce ne andiamo di nascosto. Non arriveremmo lontano. Temono altre fughe, quelle che puoi aprirti dentro, se hai un oggetto con un bordo tagliente.

Ecco. A parte i dettagli, questa potrebbe essere la stanza degli ospiti in una università, la stanza degli ospiti di minor riguardo; oppure la stanza di un pensionato dei tempi passati, o per signore dalle possibilità ridotte. Ciò che siamo ora. Le possibilità sono ridotte; per quelle di noi che hanno ancora delle possibilità.

Ma una sedia, la luce del sole, i fiori: queste cose non si possono ignorare. Io sono viva, io vivo, respiro, metto fuori la mano aperta alla luce. Non mi trovo in una prigione, ma in un luogo privilegiato, come ha detto Zia Lydia, entusiasta comunque dell’una o dell’altro o di entrambi.

Sta suonando la campana. Qui il tempo è misurato da campane, come una volta nei conventi di suore. E, come anche nei conventi di suore, c’è qualche specchio. Mi alzo, mi muovo nella luce del sole, i piedi nelle scarpe rosse senza tacchi, per risparmiare la spina dorsale e non per ballare. I guanti rossi sono posati sul letto. Li prendo, me li infilo, dito per dito. Tranne le alette che porto ai lati del viso, tutto è rosso: il colore del sangue, che ci definisce. La gonna scende sino alle caviglie, ampia, raccolta in uno sprone piatto che si allarga sul petto, le maniche sono lunghe. Anche le alette bianche sono dotazione obbligatoria; servono a impedirci di vedere, ma anche di essere viste. Il rosso non mi ha mai donato, non è il mio colore. Prendo il cesto della spesa, me lo infilo sul braccio.

La porta della stanza (non la mia stanza, mi rifiuto di dire mia) non è chiusa a chiave. Il battente non accosta bene. Esco nel corridoio lucidato, che ha una guida, al centro, di un rosa polveroso. Come un sentiero che attraversa la foresta, come un tappeto in una cerimonia regale, mi indica la strada.

Il tappeto svolta giù per la scala principale e io lo seguo, appoggiandomi al corrimano, un tempo albero, tornito in un altro secolo, reso lucido e scuro da tutte le mani che lo hanno strofinato. La casa è tardovittoriana, un edificio costruito per una famiglia ricca e numerosa. Nel corridoio c’è un orologio a pendolo che, parco, amministra il tempo; poi la porta che immette nel salotto materno sul davanti della casa, con le sue sfumature color della carne e il suo fascino ambiguo. Un salotto dove non siedo mai, vi sto solo in piedi o inginocchiata. All’estremità del corridoio, sopra la porta d’ingresso, c’è una lunetta di vetro colorato: fiori, rossi e blu.

Resta uno specchio, sulla parete del corridoio. Se giro la testa, così che le bianche alette che m’incorniciano il volto dirigano il mio sguardo da quella parte, lo vedo mentre scendo le scale, tondo, convesso, uno specchio che è come l’occhio di un pesce, e con dentro me, un’ombra deformata, una parodia di qualcosa, una figura da fiaba in un mantello rosso, che si avvia verso un momento di noncuranza che è identica al pericolo. Una suora inzuppata nel sangue.

Ai piedi della scala c’è un attaccapanni-portaombrelli, di legno ricurvo, lunghe stecche di legno che si curvano delicatamente a formare dei ganci dalla forma di felci che si aprono. Ci sono vari ombrelli lì: nero, per il Comandante, blu, per la Moglie del Comandante, e quello assegnato a me, che è rosso. Lascio l’ombrello rosso dove si trova, perché ho visto dalla finestra che la giornata è serena. Mi chiedo se la Moglie del Comandante sia seduta in salotto o no. Non sempre sta seduta. Talvolta la sento che cammina in su e in giù, un passo pesante e poi uno leggero, e il picchiettio leggero del suo bastone sul tappeto rosa polveroso. Cammino lungo il corridoio, oltrepasso la porta del salotto e quella che immette nella sala da pranzo, apro la porta al termine del corridoio ed entro in cucina. Qui l’odore non è più quello di cera per mobili. Rita è in piedi vicino al tavolo di cucina, che ha il ripiano di smalto bianco, scrostato. Ha indosso il solito vestito da Marta, verde smorto come il camice di un chirurgo del tempo precedente. L’abito è abbastanza simile al mio per foggia, è lungo e nasconde la forma del corpo, ma sopra ha un grembiulino a pettorina; mancano le alette bianche e il velo. Rita si mette il velo per uscire, ma non ha molta importanza che qualcuno veda la faccia di una Marta. Tiene le maniche rimboccate fino al gomito, che le lasciano scoperte le braccia brune. Sta facendo il pane, lavora la pasta, poi la divide e le dà forma.

Rita mi scorge e annuisce col capo, se per salutarmi o semplicemente per indicare che ha preso atto della mia presenza è difficile a dirsi. Si pulisce le mani infarinate col grembiule e rovista nel cassetto di cucina in cerca del libro dei buoni. Accigliata, stacca tre buoni e me li porge. Avrebbe una faccia gentile se sorridesse, ma quell’espressione accigliata non è rivolta a me personalmente, è l’abito rosso che lei disapprova, e ciò che significa. Ritiene che io possa essere contagiosa, come una malattia o qualsiasi forma di cattiva sorte.

Talvolta origlio alle porte, cosa che non avrei mai fatto prima. Non molto a lungo, perché non voglio essere sorpresa. Una volta, però, ho sentito Rita dire a Cora che lei non si abbasserebbe in quel modo.

«Nessuno te lo chiede» diceva Cora. «Comunque, che potresti fare?»

«Andare nelle Colonie» diceva Rita. «Loro possono scegliere».

«Con le Nondonne, a morire di fame e sa Dio che altro?» ribatteva Cora. «Non ci proverei».

Stavano sbucciando i piselli; anche attraverso la porta socchiusa udivo il lieve rimbalzare dei piselli che cadevano nella bacinella di metallo e Rita che rispondeva con un brontolio o un sospiro, di protesta o di assenso.

«Comunque, lo fanno per tutte noi» diceva Cora, «o così dicono. Se non mi avessero legato le tube, potrei essere io al loro posto, diciamo se avessi dieci anni di meno. Non è poi così brutto. Non è ciò che si chiama un lavoro duro».

«Meglio lei che io» stava dicendo Rita quando ho aperto la porta.

Avevano la faccia di chi sta sparlando alle spalle di qualcuno e teme di essersi fatto sentire: erano imbarazzate, ma anche un tantino sprezzanti, come volessero affermare un loro diritto. Quel giorno, Cora fu con me più amabile del solito, Rita più imbronciata.

Oggi, nonostante la faccia chiusa e le labbra strette di Rita, mi piacerebbe restare qui, in cucina. Potrebbe entrare Cora, da qualche altra parte della casa, con la sua bottiglia d’olio al limone e il suo strofinaccio, Rita farebbe il caffè (nelle case dei Comandanti c’è ancora del vero caffè ) e ci si siederebbe al tavolo da cucina di Rita, che non è di Rita più di quanto il mio tavolo non sia mio, e si parlerebbe, di sofferenze, di dolori, di malattie, dei nostri piedi, della nostra schiena, di tutte le diverse sorti di scherzi che il nostro corpo, come un bimbo indisciplinato, escogita. Si annuirebbe col capo come per mettere la punteggiatura alle reciproche voci, segnalando che sì, sappiamo tutto al riguardo. Ci scambieremmo rimedi e cercheremmo di superarci l’una con l’altra nella recita delle nostre afflizioni fisiche; ci lamenteremmo pacatamente, le voci dolci, sommesse, desolate come il verso dei piccioni nelle docce delle grondaie. So che cosa vuoi dire, diremmo. Oppure useremmo un’espressione eccentrica che talvolta viene pronunciata ancora da parte di gente più anziana: sento donde provieni, come se la voce stessa fosse un viaggiatore, che giunge da un luogo distante. Com’era, com’è.

Come disprezzavo simili chiacchiere. Adesso le desidero. Almeno si parlava. C’era uno scambio, di qualche sorta.

Oppure spettegoleremmo. Le Marte sanno le cose, parlano tra di loro, fanno passare le notizie ufficiose di casa in casa. Come me, origliano alle porte, indubbiamente, e vedono tutto anche quando distolgono gli occhi. Le ho udite talvolta, ho afferrato frammenti delle loro conversazioni private. Nato morto, era. Oppure, Pugnalata con un ferro da calza, direttamente al ventre. Per gelosia, una gelosia che la divorava. O, ancora più interessante: Lei ha usato un liquido per pulire i cessi. Ha funzionato che è una meraviglia, anche se lui avrebbe dovuto accorgersene dal sapore. Doveva essere ubriaco; ma l’hanno scoperta subito.

Oppure aiuterei Rita a fare il pane, affondando le mani in quel morbido tepore resistente che è così simile alla carne. Desidero ardentemente toccare qualcosa di diverso dalla stoffa o dal legno. Desidero commettere l’atto del toccare.

Ma anche se lo chiedessi, anche se venissi meno al decoro fino a quel punto, Rita non lo permetterebbe. Avrebbe troppa paura. Non è previsto che le Marte fraternizzino con noi.

Fraternizzare significa comportarsi da fratelli. Me l’ha detto Luke. Diceva che non c’era una parola equivalente che significasse comportarsi da sorelle. Avrebbe dovuto essere sororizzare, diceva lui. Dal latino. Gli piaceva sapere queste cose. La derivazione delle parole. Io lo prendevo in giro per la sua pedanteria.

Ricevo i buoni dalla mano tesa di Rita. Vi sono impresse le illustrazioni delle cose con cui si possono scambiare: dodici uova, un pezzo di formaggio, una massa scura che si ritiene sia una bistecca. Li metto nella tasca della manica, chiusa con una cerniera, dove tengo il mio lasciapassare.

«Di’ che te le dia fresche le uova» si raccomanda Rita. «Non come l’ultima volta. E un pollo, di’, non una gallina. Spiegagli per chi è e non faranno pasticci».

«Va bene» rispondo. Non sorrido. Perché invitarla all’amicizia?

3
Esco dalla porta sul retro, che dà sul giardino, grande e ordinato: un prato al centro, un salice, amenti penduli tutt’attorno ai margini, aiuole dove le giunchiglie stanno appassendo e i tulipani aprono i loro calici, traboccanti di colore. I tulipani sono rossi, di uno scuro cremisi verso il gambo, come fossero stati recisi e stessero cominciando a rimarginarsi in quel punto.

Questo giardino è il regno della Moglie del Comandante. Guardando fuori dalla mia finestra dai vetri infrangibili l’ho vista spesso, in ginocchio su un cuscino, un velo azzurro chiaro gettato sopra il suo largo cappello da giardinaggio, un cestino di lato con dentro cesoie e pezzi di spago per tenere legati i fiori. Un custode assegnato al Comandante fa i lavori più pesanti di vangatura; la Moglie del Comandante lo dirige, puntando il bastone per spiegarsi meglio. Molte Mogli hanno un giardino, qualcosa da organizzare, da tenere in ordine, da curare.

Una volta anch’io avevo un giardino. Ricordo l’odore della terra smossa, il senso di pienezza che davano le forme tonde dei bulbi chiusi nella mano, il fruscio secco dei semi tra le dita. Il tempo passava più in fretta in giardino. Talvolta la Moglie del Comandante fa portar fuori una sedia e si siede nel suo giardino.

La scena, vista da lontano, ha un’aria di pace.

Lei adesso non c’è, e comincio a chiedermi dove sia: non mi piace imbattermi inaspettatamente nella Moglie del Comandante. Forse sta cucendo, in salotto, col piede sinistro su uno sgabello, a causa della sua artrite. O lavorando a maglia delle sciarpe per gli Angeli che sono al fronte. Stento a credere che gli Angeli abbiano bisogno di simili sciarpe; comunque, quelle fatte dalla Moglie del Comandante sono troppo elaborate. Non segue il disegno a croci e stelle usato da molte altre Mogli, ma non per polemica. Alberi di abete sfilano lungo i bordi delle sue sciarpe, oppure aquile, o rigide figure di umanoidi, un ragazzo e una ragazza. Non sono sciarpe per adulti ma per bambini.

Talvolta penso che non vengano inviate agli Angeli, ma disfatte e trasformate in matasse per essere a loro volta di nuovo usate per altri lavori a maglia. Forse è semplicemente qualcosa per tenere occupate le Mogli, per dar loro uno scopo. Ma invidio alla Moglie del Comandante il suo lavoro a maglia. È buona cosa avere delle piccole mete che si possono facilmente conseguire.

E lei che cosa m’invidia?

Non mi parla, a meno che non possa evitarlo. Per lei sono un’onta; e una necessità.

Ci siamo trovate faccia a faccia per la prima volta cinque settimane fa, quando sono giunta a questa destinazione. Il Custode della destinazione precedente mi aveva condotta alla porta principale. I primi giorni ci è permesso passare dalle porte principali, ma dopo è inteso che noi usiamo quelle sul retro. All’inizio, quando le cose non si sono ancora sistemate, tutte sono incerte circa il loro rango, ma dopo un certo tempo si stabilisce se si passerà sempre dalle porte principali o sempre dal retro.

Zia Lydia diceva che lei stava cercando di ottenere per me il diritto alle principali. La tua è una posizione di privilegio, diceva.

Il Custode ha suonato il campanello, ma prima che qualcuno sentisse e venisse celermente a rispondere, la porta si è aperta verso l’interno. Credevo che mi sarei trovata di fronte una Marta, invece era lei già pronta ad aspettarmi, nella sua lunga veste grigio-azzurra, inconfondibile.

«Così sei la nuova» ha detto. Non si è fatta di lato per lasciarmi passare, è rimasta nel vano della porta, bloccando l’ingresso. Voleva che sentissi che non potevo entrare a meno che non me lo dicesse lei. È tutto un fare a spintoni e gomitate, in questi primi incontri, per il superamento di certe barriere.

«Sì» ho risposto.

«Lasciala sotto il portico» ha detto al Custode che trasportava la mia valigia. La valigia era di vinile rosso e non molto grande. Ce n’era un’altra col cappotto e gli abiti più pesanti, ma sarebbe arrivata più tardi.

Il Custode ha deposto la valigia e ha salutato. Ho udito i suoi passi dietro di me che ripercorrevano il viale, lo scatto del cancello, e ho avuto la sensazione che un braccio protettivo si ritirasse. La soglia di una nuova casa è un luogo in cui ci si sente soli.

Lei ha atteso che l’auto si allontanasse. Non le stavo guardando la faccia, ma la parte di lei che potevo vedere col capo abbassato: la vita nell’abito azzurro, un po’ appesantita, la mano sinistra sul pomo d’avorio del bastone, i grossi diamanti all’anulare, che un tempo doveva essere stato grazioso ed era tuttora ben curato, l’unghia all’estremità del dito nodoso, limata in una curva perfetta. Era come uno sberleffo, lì su quel dito; come qualcosa che la canzonasse.

«Tanto vale che entri» ha detto lei. Si è voltata e ha proseguito zoppicando per il vestibolo. «Chiudi la porta dietro di te». Ho sollevato la valigia rossa fin dentro, come lei senza dubbio aveva inteso, poi ho chiuso la porta. Non le ho detto niente. Zia Lydia ci aveva consigliato di non parlare a meno che loro non ci rivolgessero direttamente una domanda. Provate a vedere le cose dal loro punto di vista, diceva con le mani allacciate strette e l’inquieto sorriso implorante, non è facile per loro.

«Qui dentro» ha detto la Moglie del Comandante. Quando sono entrata nel salotto lei era già alla sua poltrona, il piede sinistro sullo sgabello, col suo cuscino a petit point e, in un cestino, delle rose appena colte. Il suo lavoro a maglia era per terra accanto alla poltrona, coi ferri infilati nel gomitolo.

Sono rimasta in piedi davanti a lei, le dita delle mani intrecciate. «Bene…» ha detto. Aveva una sigaretta, se l’è messa tra le labbra e l’ha tenuta stretta mentre se l’accendeva. Ho visto che aveva le labbra sottili, con delle piccole rughe verticali ai lati, come si vedevano nella pubblicità dei cosmetici. L’accendino era color avorio. Le sigarette dovevano provenire dal mercato nero, ho pensato, e ciò mi ha dato una speranza. Anche ora che non esiste più una vera e propria moneta, c’è ancora un mercato nero. C’è sempre un mercato nero, c’è sempre qualcosa che può essere scambiato. Allora lei era una donna che poteva piegare le regole. Ma io che cosa avevo da scambiare? Guardavo la sigaretta con desiderio. A me, al pari di liquori e caffè, le sigarette sono proibite.

«Quindi il vecchio ‘come si chiama’ non c’è riuscito» ha detto.

«No, signora» ho risposto.

Lei ha riso, o quasi, poi ha tossito. «È stato sfortunato» ha detto. «Questo è il tuo secondo, vero?»

«Terzo, signora» ho risposto.

«Neppure a te è andata tanto bene» ha detto lei. E ha riso e tossito ancora. «Ti puoi sedere. Non è nelle mie abitudini, solo per questa volta».

Mi sono seduta sull’orlo di una delle sedie dallo schienale rigido. Non ho voluto guardarmi intorno, non volevo sembrarle disattenta; così la mensola di marmo del camino alla mia destra, la specchiera e i mazzi di fiori sono rimaste semplici ombre, ai lati dei miei occhi. Più tardi avrei avuto anche troppo tempo per assorbire la loro immagine. Adesso il suo viso era alla stessa altezza del mio. Mi era parso di riconoscerla, o per lo meno c’era qualcosa in lei che mi era familiare. Le si vedevano un po’ di capelli, di sotto il velo. Erano ancora biondi. Ho pensato che se li fosse tinti, che la tintura per capelli fosse qualcos’altro che poteva ottenere tramite il mercato nero, ma ora so che sono davvero biondi. Si era sfoltita le sopracciglia fino a formare delle sottili linee arcuate, che le davano un aspetto costante di sorpresa, o indignazione, o curiosità, quali si potrebbero cogliere nell’espressione meravigliata di un bimbo, ma le palpebre avevano un’aria stanca. Non così gli occhi, che erano dell’ostile azzurro piatto di un cielo di metà estate in piena luce, un azzurro che respingeva. Il naso un tempo doveva essere stato ciò che si definisce grazioso ma ora era troppo piccolo per la sua faccia, che non era grassa ma grande. Due rughe le scendevano agli angoli della bocca, ai lati del mento, stretto come un pugno.

«Desidero vederti il meno possibile» mi ha detto. «Mi aspetto che anche tu provi lo stesso nei miei riguardi».

Non ho risposto, perché un sì sarebbe stato insultante, un no sarebbe apparso polemico.

«So che non sei stupida» ha proseguito dopo aver aspirato e soffiato fuori il fumo. «Ho letto il tuo incartamento. Per quanto mi riguarda, questa è una transazione d’affari. Ma se avrò guai, restituirò guai. Mi capisci?»

«Sì, signora».

«Non chiamarmi signora» ha detto, irritata. «Tu non sei una Marta».

Non ho chiesto come dovessi chiamarla, perché capivo che si augurava che non avrei mai avuto l’occasione di chiamarla in nessun modo e mi è dispiaciuto. Avevo pensato di poterla trasformare in una sorella maggiore, in una figura materna, in una persona che mi avrebbe capita e protetta. La Moglie, nella destinazione precedente a questa, aveva trascorso la maggior parte del tempo nella sua camera da letto; le Marte dicevano che beveva. Volevo che questa fosse diversa. Volevo pensare che avrebbe potuto essermi simpatica, in un’altra epoca e luogo, in un’altra vita. Invece vedevo già che non mi sarebbe stata simpatica, né io a lei.

Ha spento la sigaretta, fumata a metà, in un piccolo portacenere a forma di conchiglia sul tavolino portalampada accanto a lei. Lo ha fatto con decisione, in un colpo solo, non con la serie di piccoli colpi garbati prediletti da molte Mogli.

«Quanto a mio marito» ha detto, «non è altro che questo: mio marito. Voglio che sia perfettamente chiaro. Finché la morte non ci separerà. È stabilito così».

«Sì, signora» ho detto di nuovo, senza ricordarmi che non voleva che la chiamassi così. Un tempo c’erano delle bambole che parlavano se gli tiravi una cordicella sulla schiena; ho pensato che era quella la mia voce, una voce monotona, da bambola. Lei probabilmente mi avrebbe dato volentieri uno schiaffo. Loro possono colpirci, c’è un precedente nelle Scritture. Ma non con un arnese, solo con le mani.

«È una delle cose per cui abbiamo lottato» ha detto la Moglie del Comandante. D’un tratto non stava guardando me, stava guardando in basso le sue mani nodose tempestate di diamanti, e ho capito dove l’avevo già vista.
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07/08/2018 23:27 #37657 da Blue
Scelgo "Il racconto dell' ancella", avevo già in programma di leggerlo appena terminato "Il genio dell'abbandono", quindi spero che vinca. Anche "La camera azzurra" non mi dispiacerebbe perché è in lista da tempo, ma un bel distopico ci sta sempre bene ;)
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09/08/2018 18:32 #37673 da pierbusa
Risposta da pierbusa al topic Scelta del Libro del Mese di Settembre 2018
Sono anni che dico di leggere "Il racconto dell'ancella" e non lo faccio mai. Non so sei riuscirò a Settembre ma ci proviamo. :)

Per quanto riguarda gli altri due libri Simenon l'ho già letto e le biografie mi annoiano in genere.

Buon Agosto a tutti! ;)

(Su Anna Karenina) È un'opera d'arte perfetta, che arriva assai a proposito; un libro assolutamente diverso da ciò che si pubblica in Europa: la sua idea è completamente russa.Fëdor Dostoevskij
Tanti anni nel Club e nemmeno una medaglia!
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10/08/2018 11:33 - 10/08/2018 11:33 #37680 da Bibi
Ecco l'anteprima dell'ultimo libro che compone la rosa delle proposte.

L'ho scelto perché sono innamorata delle sue opere e dopo Roma voglio assolutamente continuare la conoscenza di Michelangelo a Firenze (sarà la prossima tappa). Trovo che Michelangelo abbia contribuito moltissimo alla cultura del nostro paese, insomma, ha segnato il Rinascimento Italiano... fra l'altro oltre a scultore e pittore era anche scrittore. Penso che al Club farebbe bene un po' di conoscenza di uno dei grandi della nostra Italia.

Vi lascio il link perché stamattina IBS non vuole funzionare. www.amazon.it/Michelangelo-sono-fuoco-Au...angelo+io+sono+fuoco basta cliccare su leggi l'estratto.
Ultima Modifica 10/08/2018 11:33 da Bibi.
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11/08/2018 18:44 #37709 da pallina
Risposta da pallina al topic Scelta del Libro del Mese di Settembre 2018
Ciao, io stavolta ho votato il giallo (sperando di trovare il tempo di leggerlo, visto che è un po' che non ho tempo per stare dietro ai libri del mese).
Ho visto che in vantaggio, al momento, c'è Il racconto dell'ancella: sto seguendo la serie tv, non sapevo esistesse un libro, e nonostante all'inizio non mi convincesse, adesso ne sono innamorata.
Chissà, magari, se dovesse rimanere in testa questo libro, sarà un modo per scoprire le differenze tra serie tv e libro.
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12/08/2018 00:04 #37713 da Ariel
Risposta da Ariel al topic Scelta del Libro del Mese di Settembre 2018
Ho votato per la biografia romanzata di Michelangelo, ma questo mese sarei felice di leggere uno qualsiasi dei libri proposti. Il giallo di Simenon era già nella mia lista di letture, e il Racconto dell'ancella sarebbe un'avventura in un genere a me sconosciuto, infine la biografia di Michelangelo mi permetterebbe di scoprire di più su un personaggio che conosco davvero superficialmente!

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"...Non importa quanto sia stretta la porta,
quanto piena di castighi la vita,
io sono il padrone del mio destino:
io sono il capitano della mia anima." William Ernest Henley
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13/08/2018 00:35 #37719 da Anna96
Risposta da Anna96 al topic Scelta del Libro del Mese di Settembre 2018
Io ero indecisa tra i primi due, poi mi sono decisa per Simenon sempre perché mi piacerebbe affrontare qualche lettura del genere "noir".
Dall'anteprima promette molto bene :laugh:
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Avatar di Mrosaria Mrosaria - 31/12/2025 - 17:19

Ciao a tutti, mi sono iscritta per provare un'esperienza di lettura condivisa. Buon anno insieme!

Avatar di Panadia Panadia - 30/12/2025 - 23:45

Ciao a tutti,Sono una lettrice non molto assidua, mi sono appena iscritta con l' intento di farmi ispirare da voi dai vostri consigli.

Avatar di paolacelio61 paolacelio61 - 29/12/2025 - 11:31

Scusatemi ieri ho sbagliato ed addirittura confuso il giorno l'incontro era il 28 e non il 29. Quindi vorrei prepararmi per il prossimo mi dite dove posso trovare le informazioni, grazie.

Avatar di callmeesara callmeesara - 25/12/2025 - 22:13

Buon Natale!

Avatar di guidocx84 guidocx84 - 21/12/2025 - 16:13

Ciao Stefania, certo che può esserle d'aiuto. Qua leggiamo e scriviamo, ci confrontiamo e col tempo ci apriamo. La lettura diventa strumento di condivisione e crescita. Vi aspettiamo ;)

Avatar di Cerry Cerry - 18/12/2025 - 00:20

Ciao sono Stefania mamma di una 23enne booklover amante di romance e thriller Mi sono iscritta al club perché ho bisogno di capire se può essere di aiuto a mia figlia in questo periodo difficile

Avatar di mulaky mulaky - 06/11/2025 - 08:33

Vi aspettiamo nel topic di SORPRESE LETTERARIE, il gioco di novembre!!! :D

Avatar di mulaky mulaky - 29/10/2025 - 10:03

Buongiorno! Se qualcuno avesse ancora problemi di login, dovete prima cancellare la cache del pc/smartphone, ricaricare la pagina, riaccettare i cookies e poi fare il login ;)

Avatar di bibbagood bibbagood - 27/10/2025 - 19:21

Ciao Cristina, in che senso? Oggi sei riuscita a scrivere sul forum :-/ scrivimi una mail (Questo indirizzo email è protetto dagli spambots. È necessario abilitare JavaScript per vederlo.) con l'errore che ti esce quando provi a fare cosa ;)

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