Morire è un’arte, come qualsiasi altra cosa.
Io lo faccio in modo eccezionale.
Io lo faccio che sembra un inferno.
Io lo faccio che sembra reale.
Ammetterete che ho la vocazione.
(da
Lady Lazarus - Sylvia Plath)
Qualche anno fa vidi in tv un film intitolato
Sylvia, che mi colpì molto: Gwyneth Paltrow vestiva i panni di una giovane scrittrice/poetessa americana morta suicida, a soli 31 anni.
Non conoscevo Sylvia Plath. Nata a Boston nel 1932 in ambiente colto e conservatore, la Plath inizia a scrivere molto presto, conseguendo premi e borse di studio; ma proprio quando la sua vita sembra incanalata verso una brillante e sicura affermazione in campo universitario e letterario, ecco sorgere i sintomi di una grave forma depressiva che la condurranno, nel '53, al primo tentativo di suicidio.
La campana di vetro (di cui è imminente una versione cinematografica) è un romanzo che appunto ripercorre, in forma semi-autobiografica, le tappe di quella discesa agli inferi e della lenta risalita. Del tutto momentanea ed illusoria, visto che un secondo tentativo di darsi la morte avrà successo dieci anni più tardi.
Fu soprattutto a seguito di quel secondo plateale gesto, e della pubblicazione postuma di molte sue opere, che il pensiero femminista americano fece di Sylvia Plath un’icona "dell'oppressione a cui la donna soggiace nell'universo chiuso della dimensione domestica". Ma il disagio esistenziale della Plath, a ben guardare, era cominciato molto prima e riguardava una sfera più ampia di quella domestica.
Perché Esther (l’alter ego di Sylvia, nel libro da me letto) è poco più d’una ragazzina quando improvvisamente s’accorge di non riuscire a conformarsi alle regole - borghesi e bigotte - implicitamente condivise e imposte non solo dalla famiglia, ma dall’intera società. Il riferimento è chiaramente l’America perbenista degli anni Cinquanta, che da un lato invitava le ragazze a studiare e a coltivare le proprie passioni, mentre dall'altro poneva sulla loro strada una meta ed un limite imprescindibili, per certificarne la "normalità": il matrimonio e l’accudimento dei figli, del marito e della casa (tema che ricordo ben sviluppato anche in un altro film,
Mona Lisa Smile)
Per quanto ancora non ben definiti, i sogni e le aspirazioni personali di Esther andranno così a scontrarsi con le aspettative altrui, che formeranno quella cappa o "campana di vetro" citata nel titolo, che offre un falso senso di protezione ma che in realtà finisce per tarpare le ali, delimitare lo spazio e togliere l’aria a chi si sente costretto a viverci sotto.
Questo libro, che dal punto di vista della struttura letteraria e forse anche dello stile ha qualcosa in comune con
Il giovane Holden, mi è piaciuto moltissimo, soprattutto nella seconda parte, più dolente, cupa ed intensa. Ma l’ironia di fondo (che talvolta pare tramutarsi in cinismo), che pervade il racconto, fa sì che esso si mantenga sempre lucido ed equilibrato.
Molti sarebbero ovviamente gli spunti di discussione che se ne potrebbero trarre, a partire da un confronto tra i concetti di "normalità" e di "nevrosi" in rapporto alle pressioni sociali, che sarebbe poi argomento tutt’altro che datato. Ma senza addentrarmi ora in analisi socio/psicoanalitiche, vorrei sottolineare la vena artistica ed insieme il senso di solitudine di questa giovane donna citando un estratto (credo) del suo diario, che risale al momento in cui venne abbandonata dal marito ed ella andò a stabilirsi nella casa che un tempo fu dimora di Yeats:
"… e' stata la casa di un poeta che amo. …. E' con me, al mio fianco. Questa e' la mia torre all'ombra del faggio rosso e le sue rose sono i miei fiori. La targa azzurra alla sua memoria in alto a destra del portoncino mi ha invitata. Ho sentito che questa doveva essere la mia casa, l'unica che fosse giusta per me. Un poeta irlandese morto ventiquattro anni fa e' la sola compagnia che io ho" …
Ringrazio Claudia per aver segnalato un romanzo che credo meriti attenzione e - per quanto possibile - comprensione. Peccato non si possa eleggere più d’un libro al mese: talvolta varrebbe forse la pena provare a modificare una consuetudine. E se lo dico io … vabbè, sto chiaramente delirando: è l'ora dell'elettroshock !