Sperando di non essere rimasto solo nella lettura, sono circa a un terzo di questo libro cupo, cinico, pessimista e stupendo.
All'inizio lo stile è un po' sgangherato ma credo sia un artificio voluto per impersonare meglio la voce narrante, un popolano, uno estratto a sorte tra i tanti, che si arruola per la guerra a vent'anni e vede con i propri occhi (presto disillusi) come funziona il mondo e come vanno le cose. Ne vengono fuori delle istantanee come radiografie più che foto, che mostrano il marcio che c'è nell'uomo, nella società, e ovunque pare ci si volti a guardare.
Voglio riportate alcuni passaggi che mi sono piaciuti:
Se la gente è così cattiva, forse è solo perché soffre, ma è lungo il tempo che separa il momento in cui smettono di soffrire da quello in cui diventano migliori.
Si perde la maggior parte della propria gioventù a colpi di goffagini. Era chiaro che stava per abbandonarmi la beneamata, presto e per sempre. Non avevo ancora imparato che esistono due umanità molto diverse, quella dei ricchi e quella dei poveri. Mi ci sono voluti, come a tanti, vent'anni e la guerra, per imparare a starmene nella mia categoria, a chiedere il prezzo delle cose e degli esseri prima di toccarli, di prenderli, e soprattutto prima di attaccarmici.
Delle file di negri, sulla riva, sfacchinavano a colpi di frusta, intenti a scaricare, stiva dopo stiva, navi mai vuote, rampicando su passerelle tremolanti e sconnesse, con il grosso cesto pieno sulla testa, in equilibrio tra le ingiurie come formiche verticali. Tra quelle forme a lavoro, qualcuna portava in più un piccolo punto nero sul dorso, erano le madri, che si trascinavano anche loro i sacchi di palmisti col bambino a mo' di fardello supplementare. Mi chiedo se le formiche possono fare altrettanto.
Al servizio della Compagnia del Piccolo Togo sgobbava dunque insieme a me, come ho detto, negli hangar e nelle piantagioni, un gran numero di negri e di bianchi poveri del mio genere. Gli indigeni, loro, funzionano insomma solo a colpi di bastone, conservano questa dignità, mentre i bianchi, perfezionati dall'educazione pubblica, fanno da soli.
Per lugubre che fosse l'ospedale, era comunque il posto della colonia, il solo dove uno si poteva sentire un po' dimenticato, al riparo degli uomini di fuori, dai capi. Vacanze dalla schiavitù insomma, l'essenziale e sola felicità alla mia portata.
PS: Il libro è dedicato ad Elizabeth Craig (1902) che Cèline conobbe a Ginevra nel 1926 e che fu presenza fondamentale e decisiva nella sua vita. Di lei Céline scriveva "Che genio in quella donna! Non sarei mai stato niente senza di lei... Che intelligenza! Che finezza! Che poesia... che mistero. Capiva tutto prima ancora che se ne facesse parola [...] come fosse una strega o una fata, intorno a lei, tutto diventava un sabba".
La Craig è stata rintracciata e intervistata in California, ottantaseienne, nel 1988:
www.edition-originale.com/it/letteratura...te-celine-1988-55606
Uno degli aneddoti racconta:
- Lei ha bruciato le lettere?!
- Sì, ero sposata, e ogni volta che le guardavo pensavo… di essere perfida conservandole segretamente. Le tenevo in un sacchetto che mio marito mi aveva regalato quando ci eravamo sposati, una piccola borsa ricamata, e mi sentivo in colpa.
Solo cinque lettere, scritte in un inglese goffo e imperfetto, sono sopravvissute al fuoco, insieme a un paio di fotografie che ritraggono la coppia in montagna sugli sci: erano state riposte in un cofanetto di gioielli e dimenticate lì.
Quest'aneddoto mi ha ricordato terribilmente Il carteggio Aspern! (...di cui ancora non conosco il finale...)