Ho riflettuto in questi giorni e alla fine sono giunta alla conclusione che mi trovo d'accordo (quasi) con tutti i punti di vista che avete espresso.
Carrère apre degli interrogativi inquietanti (uno sopra tutti: quanto do per scontato di conoscere perfettamente me stessa e le persone che ho attorno tutti i giorni? ) a cui per tutta la lettura ho sperato che desse delle risposte proprio per placare il senso di inquietudine. Ovviamente queste risposte non arrivano mai perché Carrère stesso non le conosce.
Carrère è evidentemente attratto da personalità così al limite, forse perché confrontandosi con le loro storie riesce ad analizzare più a fondo se stesso e a mettere in dubbio le sue certezze. Tutto questo sente la necessità di metterlo su carta, senza però porsi l'obiettivo di dare al lettore risposte che non ha . Ecco, scusate la ripetitività, ma è tutta questa incertezza ed inquietudine che mi ha fatto storcere il naso e che mi faceva avvertire un senso di malessere durante la lettura. In fondo avrei potuto leggere la storia di Romand su un articolo di giornale, rimanerne atterrita e trarre le mie rassicuranti (e definitive) conclusioni: è un caso eccezionale, qualcosa che non succede praticamente mai, i familiari di Romand sono stati proprio sfortunati. Invece Carrère no, ci vuole portare fuori da questo "sentiero sicuro" e ci vuole spingere a vedere la vicenda da punti di vista differenti. E questo è il problema. Scusate, ma davanti ad un fatto di cronaca così agghiacciante ed anomalo io preferisco rintanarmi nelle mie rassicurazioni

piuttosto che rimuginare sulla psicologia di Romand (senza peraltro approdare da nessuna parte) e sulla possibilità che lui continui imperterrito a mentire a sé stesso e, di riflesso, al mondo.
In conclusione, forse è proprio il genere di lettura che non fa per me