Sabato 23 Marzo si è tenuto l’incontro del nostro gruppo di lettura presso il Caffè Telesio, nella cornice suggestiva di Cosenza vecchia, dove abbiamo discusso del libro di Susan Abulhawa “Ogni mattina a Jenin”.La storia di una famiglia che attraverso quattro generazioni ripercorre sessant’anni di storia della Palestina dal 1941-2002, durante gli episodi che hanno segnato la nascita di uno stato e la fine di un altro. La famiglia Abulheja è una famiglia di contadini, orgogliosi e grati di vivere dei frutti della terra; infatti la storia inizia con la raccolta delle olive a cui partecipa tutta la famiglia. Dopo l’autoproclamazione dello stato di Israele, molte famiglie tra cui gli Abulhawa sono costretti a lasciare la loro terra per vivere in un campo profughi a Jenin. La terra, come una madre, è un pensiero latente, doloroso ma sempre presente, sotto forma di ricordo o narrazione, anche in Amal, nipote del patriarca e voce narrante, che, nata nel campo profughi di Jenin, l’ha vissuta solo attraverso i racconti di suo padre. Attraverso queste immagini descritte con grande delicatezza, Susan A. ci svela “l’umanità,” troppo spesso omessa dalla narrazione occidentale che etichetta questo, come un popolo di ignoranti, selvaggi e violenti, mostrandoci la vita normale di questa gente, cadenzata dalle preghiere, dal lavoro, dai rapporti comunitari e dall’amore. Le pagine trasudano amore e poesia, nei piccoli gesti, riti semplici e cose non dette; un padre che all’alba legge poesie alla figlia, una madre che accarezza la figlia solo di notte quando dorme, un anziano che sente il richiamo della terra e decide di tornarvi, rischiando la vita, per raccoglierne qualche frutto. Ci siamo interrogati su questo forte sentimento e la risposta ce l’ha offerta i testo:
"Amal, credo che la maggior parte degli americani non ami come amiamo noi. Non è questione di inferiorità o di superiorità. Vivono in sfere sicure e superficiali, e raramente spingono le emozioni umane nelle profondità in cui viviamo noi... Pensa alla paura. Quella che per noi è semplice paura per altri è terrore, perché ormai siamo anestetizzati dai fucili che abbiamo continuamente puntati contro. La nostra rabbia è un furore che gli occidentali non possono capire. La nostra tristezza può far piangere le pietre. " Il personaggio che forse abbiamo amato di più è Dalia, l’indomita e selvaggia beduina che ruba il cavallo di Darwish, per fare una pausa dalla raccolta delle olive. Suo padre, disonorato da tanta insolenza, decide di dare una punizione esemplare: lega la figlia al centro della piazza e con un ferro rovente le brucia la mano colpevole. Quel giorno Dalia non urlò, tenne il suo dolore dentro, e questo incenerì parte della sua anima. Questo episodio segnò profondamente la sua vita e quella di sua figlia, che da lei imparò a soffocare le emozioni. “Qualsiasi cosa senti tienila dentro!”Abbiamo apprezzato molto le poesie presenti nel testo, in particolare quella di Khalil Gibran sui figli:
I vostri figli non sono figli vostri.
Sono i figli e le figlie del desiderio che la vita ha di sé stessa.
Essi non provengono da voi, ma attraverso di voi.
E sebbene stiano con voi, non vi appartengono.
Potete dar loro tutto il vostro amore, ma non i vostri pensieri.
Perché essi hanno i propri pensieri.
Potete offrire dimora ai loro corpi, ma non alle loro anime.
Perché le loro anime abitano la casa del domani, che voi non potete visitare, neppure nei vostri sogni.
Potete sforzarvi di essere simili a loro, ma non cercare di renderli simili a voi.
Perché la vita non torna indietro e non si ferma a ieri...
Questo ci ha portato a riflettere sul finale del libro, alcuni non se lo aspettavano, forse abituati agli “happy ending”tipicamente occidentali, altri non hanno trovato scontato che la madre avesse fatto da scudo con il proprio corpo per salvare la figlia, per altri è stato scontato, invece perché è“istintivo” salvare la vita di chi si ama, soprattutto di un figlio...in fondo
“Amor descendit”! A proposito del sacrificio della vita per amore, Giovanni ci ha raccontato il mito di Alcesti ed Admeto. Admeto grazie all’aiuto di Apollo ed Ercole, riesce a sposare Alcesti, superando una prova umanamente impossibile escogitata dal padre di lei.Quando per Admeto giunge l'ora della morte egli ha la possibilità, grazie a un dono di Apollo, di sottrarsi a Thanatos, il dio della morte, purché qualcun altro muoia al suo posto. Ma nessuno è disposto a tale sacrificio, nemmeno gli anziani genitori del re. Alcesti, si offre di morire per lui, come supremo atto d’amore, a patto che lui non si risposi perché teme per i suoi figli. Mentre la reggia si prepara alle esequie, giunge nel palazzo Ercole, ignaro del triste evento. Admeto, pur di non venir meno ai suoi obblighi di ospitalità, tiene segreto il suo lutto: accoglie l'eroe e ordina che gli si prepari un abbondante pasto. Rimasto solo, Ercole banchetta tranquillo, ma a un certo punto nota l'aria afflitta dello schiavo che lo sta servendo e da lui apprende che Alcesti è morta. L'eroe prova vergogna per il suo comportamento e vuole dare ad Admeto un segno tangibile della sua amicizia: farà di tutto per strappare Alcesti a Thanatos e restituirla al marito.Ercole ritornato dagli inferi, mostra ad Admeto la donna che ha con sé, il cui volto è coperto da un velo: è una schiava ‒ così egli dice ‒ vinta come premio in una gara, e vorrebbe regalargliela per consolarsi della sua recente perdita. Admeto rifiuta la ragazza, perchè gli ricorderebbe Alcesti, cui la fanciulla assomiglia in tutto, e ciò esaspererebbe il suo dolore; né egli potrebbe portarsela nel suo letto, perché verrebbe meno al giuramento fatto alla moglie. A questo punto Ercole toglie il velo alla fanciulla, che, con grande sorpresa di Admeto, si rivela essere proprio Alcesti. Inutile dire che i commenti su Admeto sono stati molteplici e impietosi!!!
Alla fine abbiamo discusso del film “La zona di interesse”di Jonathan Glazer che alcuni di noi hanno visto nelle scorse settimane. Un film agghiacciante e potente per la completa assenza di immagini drammatiche e per la meticolosa ricerca dei dettagli apparentemente “normali”: il giardino al di qua del muro, il loro “paradiso” curato con tanti fiori bellissimi; la disinvoltura con cui Edvige misura e gioisce degli abiti che riceve, confiscati alle donne ebree detenute nel campo; i suoni carichi di significato che facevano da sottofondo: spari, urla, latrati di cani e rumori di treni e fornaci. Giovanni è intervenuto dicendo una frase che ci ha gelati dentro “ La villa accanto al lager siamo tutti noi, quando facciamo finta di non vedere e ci giriamo dall’altra parte”. E’ vero...siamo talmente abituati all’orrore, così anestetizzati che ormai non ci facciamo neanche più caso; quasi ci infastidisce sentire dell’ennesimo barcone affondato, delle atrocità in Ucraina o a Gaza, perché tanto - diciamo a noi stessi- non ci possiamo fare niente...ma forse scegliere questo libro, averne discusso insieme un sabato pomeriggio, forse, una piccola differenza la fa...