C'è un libro che ho tentato di leggere almeno un paio di volte, senza riuscirvi e questo libro è "Infinite Jest" di David Foster Wallace. Tento di proporre questa maratona, ricordando che il libro è composto da 1179 pagine più un centinaio di pagine di fitte note, sperando di trovare qualcuno abbastanza ardimentoso da unirsi con me. Non c'è fretta, vi sono altre maratone in corso, possiamo fare con assoluta calma.
I motivi per cui vorrei leggerlo sono vari, prima di tutto la curiosità verso un'opera definita il capolavoro del prematuramente e dolorosamente scomparso David Foster Wallace. In rete ho trovato una "
Recensione Fisiologica" superbamente scritta che spiega benissimo il perché e il per come ci si può avvicinare alla lettura dfi questo libro. E a cui non aggiungo nulla.
Infinite Jest: Una Recensione Fisiologica
Di
Nicola Quaggia dal blog
Potato Pie Bad Business:
Non provo neanche a recensire questo libro. Non ne ho le competenze, e vi obbligherei a leggere le opinioni di un incompetente, cosa che, sono sicuro, vi capita fin troppo spesso nell’arco di una giornata. Preferisco senz’altro recensire me stesso come lettore, che mi sembra un’impresa più fattibile e meno pericolosa. Ho scritto quanto segue con l’assoluta convinzione che per Infinite Jest possa valere eminentemente l’avvertimento che Mark Twain ha dato ai lettori all’inizio del suo Huck FInn: “Notice: Persons attempting to find a motive in this narrative will be prosecuted; persons attempting to find a moral in it will be banished; persons attempting to find a plot in it will be shot. BY ORDER OF THE AUTHOR, Per G.G., Chief of Ordnance.”
Dunque, perché dovreste mettervi a leggere un romanzo di 1179 pagine, con un centinaio di pagine di note in appendice?
La verità è che, probabilmente, non dovreste affatto mettervi a leggerlo. Non prima di esservi quantomeno resi conto della fatica e dei pericoli che incontrerete lungo il cammino, un cammino che vi si presenterà con diversi gradi di avversità, a seconda del livello del vostro allenamento e della direzione che avrete deciso di prendere.
Non capita certo tutti i giorni di trovarsi a convivere conflittualmente con un libro. Generalmente si vive con dei libri, questo sì, ma si tratta sempre di una convivenza idilliaca, in cui ci si sente completamente avvinti e costantemente sul punto di scoppiare in un pianto esultante. Con Infinite Jest il discorso cambia radicalmente: l’opera si impossesserà della vostra persona, stravolgerà i vostri ritmi abituali, vi farà sentire nudi, inermi, e ricoperti di sudore ghiacciato di fronte alla vostra incapacità di prendere sonno. Renderà più complicato il compito di preparare il bagaglio a mano per l’aeroplano.
Mi ha accompagnato per mesi interi, e ora l’ho finito. La prima reazione che ho avuto, una volta giunto a pagina 1179, è stata quella di provare una grandissima voglia di dare la caccia a David Foster Wallace nel regno dei morti, puntargli al cranio una grossissima pistola, e obbligarlo a scrivere ancora. Esattamente: 1179 pagine non bastano. 1179 pagine non bastano a uno (io) che ha letto tutto Dostoevskij a metà, senza mai arrivare al termine di una sola delle sue opere. 1179 pagine non bastano a uno (sempre io) che tende a saltare interi capitoli dei programmi d’esame “perché tanto le cose importanti sono già state dette”. 1179 non bastano a me, il più pigro e meno allenato dei lettori, l’essere più lontano dallo stereotipo del “lettore vorace” (a meno che non si parli di Asterix). “Devi darmene ancora” questo gli direi “Non si fa così, è ingiusto”.
È assai curioso che l’effetto fisiologico che il libro ha causato in me sia anche l’argomento che tiene le sue parti legate le une con le altre. È curioso, ma è così. Man mano che procedi nella lettura, man mano che inizi a capirci qualcosa, ti rendi conto di non poter più fare a meno del libro e di alcuni suoi personaggi. Ogni pagina senza Mike Pemulis, o senza Madame Psychosis, ti sembra una tortura.
Si tratta di una vera e propria dipendenza, con i suoi momenti alti e con i suoi momenti bassi, con le sue fughe colme di malafede e le sue scorpacciate ingorde e (come dicevo prima) sudaticce. Ti capita di addormentarti sul libro col tuo cervello assolutamente convinto di stare ancora leggendo che legge roba che si inventa mentre sogna e che per qualche misterioso motivo sembra avere perfettamente senso. Ti capita di allontanare da te il libro con rabbia, andando in cerca della biografia di qualche musicista tossicomane che leggerai pregando l’onnipotente di lasciarti qualche ora di sonno, di lasciar respirare il tuo cervello liberamente.
Il libro diventa un parassita, ti cresce dentro, non ti dà alcuna pace. Torni a casa dopo aver passato la giornata a romperti la testa su La Critica della Ragion Pura e ti trovi a dover assistere ad una lezione di matematica di Mike Pemulis. Preferiresti essere su di un elicottero in Vietnam a sparare a tanti piccoletti con la faccia di John Fogerty, eppure vai avanti a leggere, come se non potessi evitare di leggere, salvo poi abbandonare il libro per intere settimane perché hai bisogno di riposarti. Hai bisogno di prenderti delle vacanze dal libro. Quindi se state cercando il classico “buon libro”, lasciate perdere.
Ad essere complicato ed infingardo non è il libro in sé con la sua struttura. Qualunque persona cresciuta a zapping sulla tele o a skip sull’iPod può facilmente abituarsi alla struttura del romanzo. Ad essere complicato è il rapporto con l’autore, che si comporta come un padre dispotico che cambia canale senza dirti un cazzo proprio mentre il film che stai vedendo sta arrivando alla scena madre o proprio mentre la velina sta iniziando a farti sperare che questa sera vedrai le sue mutandine. Una cosa è fare zapping, subire lo zapping è molto più complicato. Il padre dispotico cambia canale e ti porta da tutt’altra parte, e tu ti giri a guardarlo in cagnesco e vorresti mandarlo a farsi fottere, ma sai che non puoi, e che devi sottostare alla sua insindacabile volontà. Lui ha il telecomando, tu no, è molto semplice.
Poi ci sono le note: 388 note, alcune delle quali sono molto più lunghe di un libro di Conrad. Immaginate che il padre dispotico, oltre a cambiare ossessivamente canale, oltre a farvi sentire sempre più piccoli, si metta pure a farvi alzare dal divano per andare a prendergli della roba da qualche altra parte. Immaginate di guardare la tele con vostro padre, in una tranquilla serata di luglio, e immaginate che lui vi chieda di “fare un salto in Nepal a prendergli un po’ di latte di Yak” nel momento in cui voi vi state sedendo sul divano dopo essere andati a pescargli un’aragosta nell’oceano atlantico. Questo è più o meno il tipo di sconforto che si prova di fronte a certe note. Il nostro amico Foster Wallace conosce ogni medicina, ogni principio attivo, ed ogni malattia di questo mondo. Se siete un tantino ipocondriaci (io sono un tantino ipocondriaco) potrà capitarvi di essere convinti di corrispondere a quattro quadri clinici diversi nell’arco di sole tre ore di lettura, per la gioia delle vostre fidanzate e del vostro sistema nervoso. Passerete diverse ore su internet in cerca di quelle informazioni che provino la vostra epilessia. Benzodiazepine smetterà di essere una classe di farmaci destinati alle vostre nonne insonni, e diventerà una possibilità da vagliare con molta attenzione.
Va detto, poi, che se volete diventare scrittori, questo libro vi farà sentire piccoli e inutili. Il nostro riesce a usare talmente tanti stili, a mettere sul piatto talmente tante tonalità e talmente tanti registri (restando sempre perfettamente credibile), da farvi dubitare seriamente di essere mai stati in grado di scrivere una sola frase di senso compiuto. Sembra di avere a che fare con un Mark Twain sotto anfetamine, un’autentica macchina da guerra. I personaggi che crea non sembrano veri, i personaggi che crea sono veri, tanto veri da spaventarti, rincuorarti, avvicinarti. Puoi riconoscerti in ognuno di loro – riesce a farti riconoscere perfino in Mario Incandenza, in due splendidi istanti – a volte con gioia, a volte con grandissimo imbarazzo, a volte con la convinzione di essere una creatura orribile.
Poi succede che l’ultimo personaggio ad apparire (sotto forma di voce) sia Linda McCartney (proprio lei, la defunta moglie di Paul), e che in un certo qual modo tutto il libro abbia a che fare con quell’ultimo personaggio, che tutte quelle storie cui vi siete così sinceramente appassionati vengano risolte, egregiamente, nella descrizione della voce in questione e della canzone da cui proviene quella voce. Linda McCartney. Cosa cazzo c’entra Linda McCartney?
Ora siete obbligati a leggerlo, sono cazzi vostri.