SINOSSI
Il romanzo è ambientato in un paesino sul mare, nell'Inghilterra del Settecento: il giovane Jim Hawikins e sua madre, proprietaria della locanda "Ammiraglio Benbow", scoprono nel baule di un marinaio morto la mappa di un tesoro nascosto su un'isola. Si tratta del tesoro di un famoso pirata, il capitano Flint. Jim, il dottor Livesey e il nobile Trelawney organizzano una spedizione a bordo della "Hispaniola" e portano con sé come cuoco di bordo un uomo dalla gamba di legno, Long John Silver, e il suo pappagallo. Inizia una grande avventura che per Jim sarà anche l'iniziazione alla vita adulta e la scoperta della malvagità umana.
RECENSIONE
Per chi, come me, è nato negli anni Ottanta, L'isola del tesoro di Stevenson è stato, probabilmente, un incontro infantile scontato. Magari non con il libro nella sua versione integrale, ma chi non ha visto almeno il film della Disney, o lo sceneggiato Rai, o letto una qualche riduzione per bambini?
Oggi, che di anni ne ho quaranta tondi, la rilettura di questo classico intramontabile ha suscitato in me emozioni contrastanti. Da un lato ha risvegliato il ricordo di vecchie emozioni (ed è stato sorprendente riviverle); ma dall'altro ha reso evidente lo iato che mi separa da quella grande atmosfera onirica che ha pervaso la mia infanzia. Stevenson del resto lo disse apertamente parlando delle fasi di stesura suo capolavoro: "Sarebbe stato un racconto per ragazzi; niente psicologia, né ricercatezza di stile" (pp. 276-277). E quindi è inutile sforzarsi di andare oltre il senso letterale del testo, alla ricerca di qualche significato più profondo? Non proprio, ma con un'avvertenza. Chi fosse interessato a reconditi messaggi culturali o filosofici, vedrebbe certamente vanificati i propri sforzi esegetici. Perché L'isola del tesoro è realmente ciò che dichiara di essere: un viaggio fantastico alla ricerca di un qualcosa che sfugge, che dà gusto per il semplice fatto di essere vissuto. "Il mare! Al diavolo il tesoro! - scrive al riguardo il conte Trelawney - È la gloria del mare che mi dà il capogiro" (pp. 87-88). Parole programmatiche, oltre che profetiche: giacché il senso è tutto qui, nell'avventura. Non certo per una casualità il narratore, Jim, è un ragazzo. Ed è attraverso i suoi occhi sognanti che noi seguiamo le peripezie di un equipaggio nel quale le persone per bene, fedeli sudditi di Sua Maestà, si mescolano a furfanti datisi da anni alla pirateria. Ma è assente il Male, con l'iniziale maiuscola. Dobbiamo a Stevenson l'idea romantica del pirata, persino la sua iconografia canonica a base di tricorni, rum a fiumi e pappagalli sulle spalle dei capitani. Come giustamente nota Domenico Scarpa nella sua pregevole introduzione all'edizione Feltrinelli, sui morti del racconto "non si piange", un po' come accade con i soldatini di piombo nelle battaglie frutto della creatività dei più giovani (p. 16). E questo non certo per mancanza di pietà: semplicemente, come in parte detto, il romanzo di Stevenson è gioia pura, semplice godimento che si prolunga, pagina dopo pagina, per il piacere di scoprire come andrà a finire. Ed ecco, quindi, che affiora, proprio come il relitto di una nave pirata abbandonata, un primo importante messaggio: il tesoro, quello autentico, è dentro di noi, noi che sogniamo con il libro tra le mani.
E i pirati? Be' ma è ovvio! La storia non avrebbe metà del suo fascino senza la loro presenza. Perché il pirata, e in particolare il leggendario Long John Silver, incarnano l'umano desiderio di libertà, di vivere al di là delle convenzioni sociali e oltre (non tanto contro, ma proprio oltre) le regole e gli oneri della convivenza civile. Il mare, dunque, è un mondo a parte, dove non si beve acqua ma rum, dove non c'è disciplina all'infuori degli ordini del capitano, dove tutto è lecito tranne il tradimento. È tutta lì la morale del pirata: sgozza, depreda, saccheggia senza alcun rimorso, ma guai a voltare le spalle ai compagni, pena la messa al bando (simboleggiata dal "marchio nero", che preannuncia la morte sociale prima ancora che fisica del malcapitato di turno che lo riceve). E del resto cosa temono i ragazzi più di ogni altra cosa? Di essere emarginati, esclusi dal branco. Nella combriccola agli ordini di Silver possiamo scorgere la moderna 'compagnia', quella che si forma di norma tra i banchi di scuola. Da ragazzi ci siamo sentiti tutti un po' pirati, e in ogni gruppo c'è sempre un leader, un Silver più carismatico degli altri. Questo leggendario personaggio - di gran lunga il più affascinante del libro - è l'unico 'cattivo' descritto realmente a tutto tondo. Egli domina la narrazione (non a caso il primo titolo pensato da Stevenson era "Il cuoco di bordo"), non è ingabbiabile in un definito e definitivo profilo morale, e alla fine, significativamente, fugge dall'Hispaniola. "Credo fossimo tutti contenti di esserci sbarazzati di lui a un prezzo così basso" (p. 269), conclude laconico Jim. Ma c'è da credergli? Silver è quella parte ribelle che alberga dentro ciascuno di noi e che riemerge, di tanto in tanto, nel corso del tempo. I bambini sono sognatori e liberi per natura; con l'età l'afflato anarchico che ci abita si affievolisce: si entra nella dimensione razionale. Ma qualcosa rimane dentro di noi, un'eco flebile e sommessa resta udibile, se tendiamo bene l'orecchio. È il richiamo del vecchio Silver, il fedele capitano Flint sulla spalla, la stampella a sorreggerlo claudicante, e un nuovo tesoro da inseguire.
[RECENSIONE A CURA DI GIGIMALA]
| Autore | Robert Louis Stevenson |
| Editore | Feltrinelli |
| Pagine | 287 |
| Anno edizione | 2014 |
| Collana | Universale economica. I classici |
| ISBN-10(13) | 9788807901393 |
| Prezzo di copertina | 10,00 € |
| Prezzo e-book | 1,99 € |
| Prezzo audiolibro | 8,95 € |
| Categoria | Azione - Avventura |

