Ho il piacere di segnalare agli amanti della letteratura russa dell'800 la nuova traduzione, appena uscita in libreria, di "Anna Karenina" di Claudia Zonghetti nelle edizioni Einaudi.
Ho appena iniziato a leggerla e devo dire che pur continuando a ritenere la traduzione di Pietro Zveteremich (edizioni Garzanti) stilisticamente superiore, qui riscopriamo un capolavoro palpitante e moderno con dei chiaroscuri dei personaggi incredibilmente ben definiti. Fatta piazza pulita di molti classicismi, fin dall'incipit che la Zonghetti ha avuto il coraggio di cambiare, resta la storia, restano i personaggi, che finalmente parlano un linguaggio più vicino a noi contemporanei.
Eccovi un piccolo assaggio della nuova traduzione, il capitolo 1 della prima parte.
Le famiglie felici si somigliano tutte, le famiglie infelici lo sono ognuna a suo modo.
Casa Oblonskij era sottosopra. La moglie aveva scoperto la tresca fra il marito e l’istitutrice francese che era stata per qualche tempo con loro e lo aveva informato che non potevano piú vivere sotto lo stesso tetto. Era accaduto tre giorni prima, e la situazione risultava assai penosa per i coniugi e la famiglia tutta, nonché per la servitú. Non c’era piú motivo di restare insieme, e familiari e servitú lo avevano ben chiaro: gli ospiti occasionali di una qualunque locanda potevano vantare legami piú saldi dei loro, familiari e servitú degli Oblonskij. La signora non usciva dai suoi appartamenti e il signore non si vedeva da tre giorni. Frastornati, i bambini scorrazzavano in libertà per tutta la casa; l’istitutrice inglese si era presa a male parole con la governante e aveva già scritto a un’amica pregandola di trovarle un altro impiego, il cuoco se n’era andato il giorno prima giusto all’ora del pranzo e anche la cuciniera della servitú e il cocchiere avevano chiesto il benservito.
A tre giorni dalla lite, dunque, il principe Stepan Arkad´ič Oblonskij – Stiva, per gli amici del beau monde – si svegliò all’ora consueta, le otto del mattino, ma sul divano di cuoio del suo studio e non nella stanza da letto della moglie. Rigirò il suo corpo pingue e ben curato sulle molle del divano, quasi a voler riprendere sonno e neanche per poco, rivoltò il cuscino, l’abbracciò stretto e vi affondò la guancia. Poi, d’un tratto, si sedette in un balzo con gli occhi sgranati.
«Accidenti, com’era? – pensava, sforzandosi di rammentare il suo sogno. – Com’era, accidenti? Certo! Alabin dava un banchetto a Darmstadt. Anzi no, non era a Darmstadt, ma da qualche parte in America. Un momento, però: nel mio sogno Darmstadt era in America. Dicevo: Alabin dava un banchetto e si mangiava su tavoli di vetro. Esatto, tavoli canterini che intonavano Il mio tesoro. Anzi no, era persino meglio de Il mio tesoro. E quelle caraffine sinuose che scoprivamo essere donne…» ripescava nella memoria.
Un guizzo allegro accese lo sguardo di Oblonskij, che tornò ai suoi pensieri con un sorriso stampato sulle labbra: «Gran bel sogno, bello davvero! Con certe cosette che da svegli neanche si devono pensare, altro che dirle ad alta voce…» Notato il filo di luce che si insinuava fra le tende, Oblonskij posò divertito i piedi sul pavimento, con quegli stessi piedi cercò tentoni le pantofole di cuoio mordorè che gli aveva confezionato la moglie (un regalo per l’ultimo compleanno) e, senza ancora alzarsi, assecondando un’abitudine vecchia di nove anni, allungò una mano là dove nella sua stanza da letto avrebbe trovato la vestaglia. Solo allora ricordò perché e per come non aveva dormito in camera con la consorte, ma nel suo studio; il sorriso svaní e la fronte gli si increspò di rughe.
«Ohiohiohi…» gemette al ricordo di quant’era accaduto: aveva di nuovo chiaro in mente ogni particolare della lite con la moglie, il vicolo cieco in cui si era cacciato e – piú penosa che mai – la consapevolezza della propria colpa.
«Non mi perdonerà. Nossignori. Non potrà mai perdonarmi. E, quel che è peggio, la causa di tutto quanto sono io, io che non ho colpa alcuna! È questa, la tragedia», pensava, e intanto rievocava i momenti peggiori dell’alterco ripetendo il suo gemito affranto: «Ohiohiohi!»
L’attimo peggiore era stato il primo, quando, di ritorno dal teatro con una pera bella grossa da donarle, allegro e compiaciuto com’era, Oblonskij non l’aveva trovata in salotto e – per sua grande meraviglia – nemmeno nello studio, bensí in camera da letto e con lo sventurato foglio rivelatore in mano.
Dolly, la sempre indaffarata, sempre affaccendata e un po’ ottusa Dolly – o per lo meno cosí la credeva lui – lo fissava immobile, con in mano il biglietto e negli occhi un’espressione di disgusto, disperazione e rabbia.
– Questo che significa? Eh? – gli chiedeva, sventolando il foglio.
Come spesso accade, tuttavia, a tormentare Oblonskij non era tanto il fatto in sé, quanto la reazione che aveva avuto alle parole della moglie.
Gli era capitato ciò che sempre capita a chi viene colto in flagranza – e in flagranza vergognosa – quando meno se l’aspetta: non era stato capace di addomesticare lo sguardo al ruolo di colpevole che la moglie gli aveva affibbiato. E invece di risentirsi, di negare, di giustificarsi, di chiedere perdono o di restare finanche impassibile (tutto era da preferirsi a ciò che fece!), sul viso gli si era involontariamente stampato («riflesso cerebrale», si scoprí a pensare da appassionato di fisiologia qual era) il solito, consueto, bonario e perciò sciocco sorriso.
Era quel sorriso sciocco che non riusciva a perdonarsi. Vedendolo sorridere, Dolly era stata scossa da un fremito come per una fitta, dopo di che – con tutta la furia di cui era capace – gli aveva rovesciato addosso un fiume di invettive ed era corsa via. E non aveva piú voluto vederlo.
«La colpa è tutta di quello sciocco sorriso, – pensava. – Cosa posso fare? Cosa?» si disperava Oblonskij, ma non trovava una risposta.
(Su Anna Karenina) È un'opera d'arte perfetta, che arriva assai a proposito; un libro assolutamente diverso da ciò che si pubblica in Europa: la sua idea è completamente russa.— Fëdor Dostoevskij
Tanti anni nel Club e nemmeno una medaglia!
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