Leggiamo, caro Novel67, invece queste altri frasi.
"Arrivato a Tōkyō ed entrato in collegio, ora che cominciava la mia nuova vita, c’era solo una cosa che io sapevo di dover fare a tutti i costi: cercare di non pensare troppo a tutto quello che c’era stato, mettere una giusta distanza tra quelle cose e me stesso. Decisi di dimenticare, di cancellare dalla memoria il tavolo da biliardo rivestito di feltro verde, la N360 rossa e il fiore bianco sul banco. Dimenticare il fumo che si levava dal fumaiolo della sala di cremazione, il fermacarte massiccio sul tavolo dell’ispettore di polizia, e tutto il resto. All’inizio sembrò funzionare. Tuttavia, per quanto mi sforzassi di dimenticare, dentro di me restava qualcosa, una specie di grumo d’aria non meglio precisato. Poi, col passare del tempo, quel qualcosa cominciò a prendere una forma piú chiara e definita. Cosí chiara che posso anche tradurla in parole. Le seguenti:
LA MORTE NON È L’OPPOSTO DELLA VITA,
MA UNA SUA PARTE INTEGRANTE.
Tradotto in parole suona piuttosto banale, ma allora non era cosí che lo percepivo, ma come un grumo d’aria presente dentro di me. La morte era parte di quel fermacarte, parte indissolubile delle quattro palline bianche e rosse allineate sul tavolo di biliardo. E sentivo che noi vivevamo inspirandola nei polmoni come una finissima polvere.
Fino ad allora io avevo sempre considerato la morte come una realtà indipendente, completamente separata dalla vita. Come a dire: «Un giorno prima o poi la morte allungherà le sue mani su di noi. Ne consegue che fino a quando ciò non avverrà essa non potrà toccarci in nessun modo». Questo mi sembrava un ragionamento assolutamente onesto e logico. La vita di qua, la morte di là. Io sono da questa parte, e quindi non posso essere da quella.
Ma a partire dalla notte in cui morí Kizuki, non riuscii piú a vedere in modo cosí semplice la morte (e la vita). La morte non era piú qualcosa di opposto alla vita. La morte era già compresa intrinsecamente nel mio essere, e questa era una verità che, per quanto mi sforzassi, non potevo dimenticare. Perché la morte che in quella sera di maggio, quando avevo diciassette anni, aveva afferrato Kizuki, in quello stesso momento aveva afferrato anche me.
Trascorsi la primavera dei miei diciott’anni sentendo dentro di me quel grumo d’aria. Però allo stesso tempo mi sforzavo di non prenderlo troppo sul serio, perché intuivo vagamente che prendere le cose sul serio non sempre significa avvicinarsi alla verità. Continuavo a muovermi in quell’angosciosa antitesi, in un infinito circolo vizioso. A pensarci adesso furono davvero dei giorni strani. Nel pieno della vita tutto ruotava attorno alla morte."
Ogni ulteriore commento mi parebbe inutile. Qui...
carta canta!