Claudia1221 ha scritto: Io invece trovo che, proprio perché impegnativo, possa essere utile e stimolante leggere tutti insieme 
Per permettere un voto consapevole, l'incipit di "Un altro giro di giostra":
SI SA, capita a tanta gente, ma non si pensa mai che potrebbe capitare a noi.
Questo era sempre stato anche il mio atteggiamento. Così, quando capitò a me, ero impreparato come tutti e in un primo momento fu come se davvero succedesse a qualcun altro. «Signor Terzani, lei ha il cancro», disse il medico, ma era come non parlasse a me, tanto è vero – e me ne accorsi subito, meravigliandomi che non mi disperai, non mi commossi: come se in fondo la cosa non mi riguardasse.
Forse quella prima indifferenza fu solo un'istintiva forma di difesa, un modo per mantenere un contegno, per prendere le distanze, ma mi aiutò. Riuscire a guardarsi con gli occhi di un sé fuori da sé serve sempre. Ed è un esercizio, questo, che si può imparare.
Passai ancora una notte in ospedale, da solo, a riflettere. Pensai a quanti altri prima di me, in quelle stesse stanze, avevano avuto simili notizie e trovai quella compagnia in qualche modo incoraggiante. Ero a Bologna. C'ero arrivato attraverso la solita trafila di piccoli passi, ognuno di per sé insignificante, ma nell'insieme decisivi, come tante cose nella vita: una persistente diarrea incominciata a Calcutta, vari esami all'Istituto delle Malattie Tropicali a Parigi, altri esami per scoprire la causa di un'inspiegabile anemia, finché un accorto medico italiano, non accontentandosi delle spiegazioni più ovvie, s'era messo con un suo strano strumento – un penetrante serpentaccio di gomma dall'occhio luminoso – a guardare nei recessi più reconditi del mio corpo e, per coltivata esperienza, aveva immediatamente riconosciuto quel che conosceva.
Gli ero grato per essere stato bravo e chiaro. Così potevo, con calma, e ora con una vera ragione, fare i miei conti, ristabilire le mie priorità e prendere le decisioni necessarie. Stavo per compiere cinquantanove anni e mi venne da voltarmi indietro, come si fa per guardare con soddisfazione la salita che si è fatta, una volta arrivati in cima a una montagna. La mia vita fino ad allora? Meravigliosa! Un'avventura dopo l'altra, un grande amore, nessun rimpianto, niente di importantissimo ancora da fare. Se da ragazzo, partendo per questo viaggio, mi fossi dato per meta quella di per sé già agognata da tanti di «piantare un albero, mettere al mondo un figlio e scrivere un verso», più o meno c'ero arrivato. E quasi senza accorgermene, senza sforzo e, strada facendo, divertendomi.
Quella notte in ospedale, nel silenzio rotto solo dal frusciare delle auto sull'asfalto bagnato della strada e da quello delle suore sul linoleum del corridoio, mi venne in mente un'immagine di me che da allora mi accompagna. Mi parve che tutta la mia vita fosse stata come su una giostra: fin dall'inizio m'era toccato il cavallo bianco e su quello avevo girato e dondolato a mio piacimento senza che mai – me ne resi conto allora per la prima volta –, mai qualcuno fosse venuto a chiedermi se avevo il biglietto. No. Davvero il biglietto non ce l'avevo. Tutta la vita avevo viaggiato a ufo! Bene: ora passava il controllore, pagavo il dovuto e, se mi andava bene, magari riuscivo anche a fare... un altro giro di giostra.
Il giorno dopo cominciò come un giorno qualunque. Niente attorno a me era cambiato e niente rifletteva la gran tempesta di pensieri che mi turbinava in testa. A Porretta Terme, dove dovetti cambiar treno per raggiungere Pracchia e da lì Orsigna, mi ricordai persino di andare a ritirare la biancheria che qualche giorno prima avevo lasciato a lavare. Arrivato a casa, proposi ad Angela che mi aspettava di andare assieme a fare una passeggiata nel bosco. Dopo quasi quarantanni di vita in comune fu semplice parlarsi e tacere. Le promisi di impegnarmi a farcela, e quello, credo, fu l'unico momento in cui mi commossi.
E l'incipit de "Il Maestro e Margherita":
Nell'ora di un tramonto primaverile insolitamente caldo apparvero presso gli stagni
Patriaršie due persone. Il primo - che indossava un completo grigio estivo - era di bassa statura,
scuro di carnagione, ben nutrito, calvo; teneva in mano una dignitosa lobbietta, e il suo volto, rasato
con cura, era adorno di un paio di occhiali smisurati con una montatura nera di corno. Il secondo -
un giovanotto dalle spalle larghe, coi capelli rossicci arruffati e un berretto a quadri buttato sulla
nuca - indossava una camicia scozzese, pantaloni bianchi spiegazzati e un paio di mocassini neri.
Il primo altri non era che Michail Aleksandroviè Berlioz, direttore di una rivista letteraria e
presidente di una delle piú importanti associazioni letterarie moscovite, denominata per brevità
MASSOLIT1; il suo giovane accompagnatore era il poeta Ivan Nikolaevič Ponyrëv, che scriveva
sotto lo pseudonimo Bezdomnyj2.Giunti all'ombra dei tigli che cominciavano allora a verdeggiare,
gli scrittori si precipitarono per prima cosa verso un chiosco dipinto a colori vivaci, che portava la
scritta «Birra e bibite».
Ma conviene rilevare la prima stranezza di quella spaventosa serata di maggio. Non solo
presso il chiosco, ma in tutto il viale, parallelo alla via Malaja Bronnaja, non c'era anima viva. In
un'ora in cui sembrava mancasse la forza di respirare, quando il sole che aveva arroventato Mosca
sprofondava oltre la circonvallazione Sadovoe in una secca bruma, nessuno era venuto sotto l'ombra
dei tigli, nessuno sedeva sulle panchine, deserto era il viale.
- Mi dia dell'acqua minerale, - disse Berlioz.
- Non ce n'è, - rispose la donna del chiosco e, chi sa perché, prese un'aria offesa.
- Ha della birra? - chiese con voce rauca Bezdomnyj.
- La devono portare stasera, - rispose la donna.
- Che cos'ha? - chiese Berlioz.
- Succo d'albicocca, ma non è fresco, - disse la donna.
- Ce lo dia lo stesso!...
Il succo formò un'abbondante schiuma gialla, e nell'aria si diffuse un odore di bottega di
barbiere. Toltasi la sete, i letterati, presi da un improvviso singhiozzo, pagarono e si sedettero su
una panchina di fronte allo stagno, voltando le spalle alla Bronnaja. Qui successe una seconda
stranezza, che riguardava soltanto Berlioz. A un tratto egli smise di singhiozzare il suo cuore diede
un forte battito, per un attimo non si sentí piú, poi riprese, ma trafitto da un ago spuntato. Inoltre,
Berlioz fu preso da un terrore immotivato, ma cosí potente che gli venne voglia di correre via senza
voltarsi dagli stagni Patriaršie. Si guardò in giro angosciato, non comprendendo che cosa avesse
potuto spaventarlo tanto. Impallidí, si asciugò la fronte col fazzoletto pensò: «Che cos'ho? Non mi
era mai successo!