SINOSSI
Iniziata in tempi remoti e riscritta più volte, "Diceria dell'untore" incontrò subito, quando fu data alle stampe nel 1981, un unanime consenso di critica e di pubblico. Stupiva l'esordio tardivo e riluttante dell'autore, la sua distanza dai modelli correnti, la composita ragione narrativa tramata di estasi e pena, melodramma e ironia; non senza il contrappunto di una sotterranea inquietudine religiosa, come di chi si dibatte tra la fatalità e l'impossibilità della fede... Stupiva, l'oltranza lirica della scrittura, disposta a compromettersi con tutte le malizie della retorica senza vietarsi di accogliere con abbandono l'impeto dei sentimenti più ingenui. La vicenda racconta un amore di sanatorio, nel dopoguerra, fra due malati, un amore-duello sulla frontiera del buio. L'opera è arricchita da un'appendice di pagine inedite escluse dalla primitiva edizione.
RECENSIONE
Diceria dell'untore è proprio come dice il titolo un racconto di un malato che narra la sua situazione di infermo, che in balia dei suoi pensieri, come se fosse in un dormiveglia quasi perenne, si e ci racconta i suoi stati d'animo che cambiano a seconda dell'umore o della giornata trascorsa. Vita e morte sono pensieri che si intrecciano incessantemente nella sua testa facendolo vagabondare nelle sue elucubrazioni, riflessioni, come fosse un viaggio fantastico ad occhi chiusi. Il che rende il tutto un onirico, fumoso, meraviglioso percorso nei meandri della psiche del protagonista, che faticosamente cerca di districare i tanti nodi, dubbi e perplessità; ripercorrendo la sua vita tra ricordi più o meno belli e un presente fatto di malattia che affronta con un fare "negativo" dandosi per spacciato ad una morte quasi imminente che lo fa dubitare sui temi più importanti proprio della vita, quali i legami umani oppure la religione, trovandosi più volte a confrontarsi/scontrarsi con l'amico/nemico medico. Questo eterno dualismo che va soprapponendosi nei suoi pensieri tra bene e male non gli fa vedere in maniera lucida la realtà. Lo salverà da questo incancrenimento dell'animo una sola cosa: la ricerca dell'amore /felicità che per lui diventa il "terzo" ma forse più importante dei valori che gli servirà per sentirsi in pace con il suo mal di vivere e sentirsi così pronto per la benedetta morte. Ed ecco che il protagonista con la bella e sofferente Marta, sua compagna di sanatorio, instaura una delle liaison più tristi e commoventi, ma così amorevoli tanto da prendersi per mano ed insieme trascinarsi nel condurre i loro corpi stanchi, usurati, malati tanto da far logorare più di tutto i loro pensieri e che non gli permetterà di vivere il fiore della propria giovinezza. Scritto volutamente dall'autore con un registro aulico/ricercato usando anche figure retoriche, dove sia i personaggi che i luoghi hanno un ruolo fondamentale per lo sviluppo del pensiero critico del protagonista, cosa che rende il tutto una perla rara della letteratura moderna.
[RECENSIONE A CURA DI SIMONE F]
Autore | Gesualdo Bufalino |
Editore | Bompiani |
Pagine | 2013 |
Anno edizione | 2016 |
Collana | Classici contemporanei Bompiani |
ISBN-10(13) | 9788845281693 |
Prezzo di copertina | 12,00 € |
Prezzo e-book | 1,99 € |
Categoria | Contemporaneo - Attualità - Sociale - Psicologico |
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Per scrivere una recensione su “Diceria dell’untore” di Gesualdo Bufalino bisognerebbe togliersi i jeans e indossare il vestito della domenica, preparandosi un tè da versare in una tazza di porcellana a forma di ibisco, dopo aver spento il computer ed essersi muniti di una carta d’Amalfi e di un pennino da intinzione. Tanto meriterebbe quella che, senza esagerare, può definirsi una scrittura sontuosa.
La lingua al principio è ostica, come un bosco di mangrovie, un viluppo di sensi oscuri che tuttavia, pian piano, a furia di annasparci, diventa familiare finché il groviglio di parole ampollose, la compiaciuta ironia dell'uso e dell'abuso, i torciglioni di metafore ma anche il modo visionario e iperbolico di raccontare non stregano e diventano una festa. La scrittura di Bufalino è questo: un’eterna festa, uno spettacolo pirotecnico nel quale il lettore sgrana continuamente gli occhi, diventa il bambino che osserva prilli d’aquilone. Anche quando volano come corvi su un cimitero, le sue parole sono gioia pura, tripudio del cuore.
Il libro racconta la vicenda di sospensione di un giovane reduce che, dopo la Seconda Guerra Mondiale, è costretto a entrare in un sanatorio sulle alture di Palermo per curare una grave malattia polmonare, la tisi. Un vero e proprio “apprendistato di morte” vissuto con gli altri compagni di consunzione, tra disquisizioni filosofiche e domande sul divino, in cui lo status di malato permette al protagonista di vivere con maggiore intensità la vita, avendo egli “più letto libri che vissuto giorni”, e diventa quasi una condizione di privilegio attraversata con caustico disincanto e pudica, disperante, umanità.
Ma la vera storia del libro non è la storia in sé, che può definirsi "un'educazione alla catastrofe" con la "ricchezza di un noviziato indimenticabile nel reame delle ombre". Il racconto autentico, sublime, è quello della lingua. Il viaggio è tutto lì dentro e l'autore stesso lo svela quando, spiegando perché scrisse il libro, confessa che il motivo fu un suo personale turgore espressivo, con il naturale rimando erotico suggerito da questa immagine. Una lingua carnale, funerea e vischiosa che sembra quasi ordita nella sua certosina ampollosità ma che, al contrario, non è premeditata. Bufalino pensava realmente in una maniera fuori del comune.
Per i lettori che viaggiano nella lingua più che nelle storie, “Diceria dell’untore” è la pentola d’oro in fondo al sentiero impervio e oscuro. Una scrittura che ti entra dentro.
Per quanto la vena poetica di Bufalino sia torva e implacabile, si avverte per tutto il tempo di lettura la risata sorniona e malinconica dell’autore. Probabilmente la sua stessa singolarità lo allontanava dagli altri costringendolo alla solitudine, senza tuttavia togliergli il desiderio e la nostalgia per una vita che avesse sapore. Come rivela in un passo del libro: "E dopotutto il registro alto, lo scialo degli aggettivi, l'oltranza dei colori, mi pareva, e pare, il modo che ci resta per contrastare l'ossificazione del mondo in oggetti senza qualità e per restituire ai nostri occhi ormai miopi il sangue forte delle presenze e dei sentimenti".
Marina Presciutti