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"D'improvviso il cielo fu oscurato da un'aquila".

Così comincia, di prepotenza, la terza strofa del canto di Calasso. Dallo sfacelo della modernità, proiettati indietro fino alla caligine del mito greco. Ma non è sufficiente, più indietro ancora, più lontano. L'aquila che adesso ci oscura il cielo sulla testa è Garuḍa. È l'India prima che fosse India.

Contraltare a Le nozze di Cadmo e Armonia, il terzo capitolo dell'Opera senza nome si intitola Ka. Calasso lo scrive nel 1996, ma forse sarebbe più consono dire che lo canta, che lo recita, che lo sogna. La ninfolessia, la follia che viene dalle ninfe, ha inseguito l'autore fino alle montagne dell'Est. Ha cambiato volto, ha assunto diversi nomi. Ma è sempre lei, sempre l'immagine, il simulacro che si reitera in ogni tempo e luogo.

Gli invasati di Ka sono i ṛṣi ("rishi"), i veggenti vedici, i poeti. Coltivano il tapas, l'ardore. E per mezzo del tapas, fuoco interno che li pervade, i ṛṣi compongono i Veda.

Calasso li ha toccati tante volte, questi testi obliqui e cerimoniali, lascito di uomini e donne che, "unici fra gli antichi, si lasciarono conoscere soltanto nel linguaggio e nel culto. Parole e dèi. Null'altro di loro è rimasto. E null'altro, forse, volevano che rimanesse." (Ka, p.197). È l'amore per la mente a portarlo sul tessuto vedico. Per la mente e il suo complesso aggrovigliarsi per disciogliere enigmi e poi crearne altri, senza soluzione di continuità. E così Prajāpati, il Progenitore che è prototipo indefinito e che pertanto chiamarono Ka ("chi?"); Prajāpati ha composto il mondo dalla propria mente, dal suo tapas. E dunque, ecco che tutto quel che ci attornia è maya, illusione. E per mezzo di questa illusione, Prajāpati vince Mṛtyu ("mritiu"), la Morte. Subito le equivalenze si rendono visibili, i contrari e le comunanze. Di fronte allo scrutare di Prajāpati, un tessuto di significati si compone: terrorizzata dal nulla che è la morte, la mente inizia a produrre complessità, a produrla e ordinarla e a produrla ancora. Ecco perché gli antichi dèi ci appaiono così infantili, così difettosi: il timore della morte non pungola la loro mente.

"Ti ho vinta" dice dunque Prajāpati. "Uccidimi pure. Le equivalenze ci saranno sempre, che io sia vivo o no." (p.42). Questo parrebbe il mistero della cultura vedica: file interminabili di rituali, suddivisioni estenuanti e codici per tener testa alla morte che scruta.

Ka si sviluppa in un lungo sogno, incorniciato da Garuḍa, il dio-verbo-volante che ha in animo di imparare i Veda. È lui a introdurre il libro ed è lui a richiuderlo. Tra la semplicità di questi due gesti, Calasso rievoca un mondo rotante che germoglia, matura, si corrompe e trasforma. La creazione del mondo, i primi veggenti, le prime vicende divine. Gli amori di Śiva ("Shiva"), che è poi Rudra, che sarà poi Dioniso – tutto si ripete un poco differente, ma si ripete. I canti vedici e la complessità dei rituali. E poi Viṣṇu ("Vishnu") e i suoi avatara. E di punto in bianco, quasi senza accorgersene, i ṛṣi abbandonano il canto e passano al racconto:

"Era come se dimprovviso tutti fossero stanchi di compiere gesti che hanno un significato. Volevano stare seduti, nell'erba o intorno a un mucchio di braci, ad ascoltare storie. Ed erano storie dove spesso si raccontavano e si descrivevano quegli stessi riti che gli ascoltatori stavano compiendo. […] Così ha inizio la letteratura. Letteratura è ciò che cresce negli intervalli del sacrificio. Prima è un'erba, poi un rampicante che entra nelle commessure dei mattono e le spezza dall'interno" (pp. 360-362).

D'improvviso il canto fu oscurato dal racconto. Nei carmi dei veggenti si fanno strada le avventure di Kṛṣṇa ("krishna"), l'epica, la Bhagavad Gita. Infine il Buddha, lo scioglitore dei vincoli. Pare quasi un sarcastico destino, che l'horror vacui vedico culmini con la vacuità del nirvana.

Tra le prime avventure divine e il risveglio di Siddhartha il Budda, Calasso dispiega la prosodia dei ṛṣi e l'Aśvamedha, il sacrificio del cavallo. L'ossessione dell'autore per il sacrificio si riverbera in quello dei devoti indiani, per i quali il vivente si caratterizza per due evidenze: mangiare ed essere mangiato. Ed è importante che i due eventi si compiano con un rigore, diciamo pure un galateo. Perché se gli stessi dèi si conquistarono l'immortalità "indossando i metri" (scrive Calasso), la stessa umanità, che al loro esempio fa riferimento, non poteva che controllare l'orrore attraverso il metro, il ritmo, il codice rituale. Da qui la potenza di questi decrepiti asceti, che i Deva lusingano, minacciano e blandiscono, sdegnati da quel bestiame ribelle che è l’essere umano, che non vuol stare al proprio posto e che minaccia l’esclusività del soma, il nettare divino. Le Apsaras, sorelle alle ninfe elleniche, discendono sui veggenti proprio per ordine dei Deva, al fine di distrarre la loro meditazione e porre un freno al loro potere.

E poi, con passo a malapena percepibile, la narrazione trascorre dalla foschia del mito ai semi della Storia. Progressivamente le vicende si chiarificano e le cose si fanno evidenti. Non più divinità femminili oltraggiate, in fuga verso i cieli per incastonarsi nelle costellazioni; non più il Serpente e la Tartaruga su cui poggia il mondo, intimoriti dai demoni e dalla noncuranza di Śiva e Pārvatī, che "pensano soltanto ai dadi e al coito" (p.147). Come l'Iliade avrebbe posto fine alle brume del mito greco, ecco il Mahābhārata, la grande storia bellica – "tre volte la Bibbia, sette volte l'Iliade e l'Odissea sommate" (p.359) – a togliere le sibille di bocca ai veggenti e a portarle nel campo di battaglia. Il mistero abbandona il sacro e rifugge dietro una cortina di favole: "Quando i veggenti parlano dell'origine e si inoltrano sino al punto più remoto, là dove ancora non sono separati l'esistente e il non esistente, anche quel punto non è un inizio ma un risultato. È un residuo. Qualcosa è avvenuto prima – un intero altro mondo è avvenuto prima – perché si formasse quel grumo che naviga sulle acque come un relitto. L’inizio è un naufragio. Questo fu un sottinteso dei veggenti. Questo fu anche il sottinteso del Mahābhārata" (p. 360).

Ultimo arriva Buddha, successore di Kṛṣṇa. E se l'eroe del Mahābhārata aveva purificato l'eone con la più sanguinosa delle guerre, Siddhartha rovescia gli occhi all'interno: il vuoto non si conquisterà più sul campo, ma in se stessi. La beata tabula rasa dei filosofi.

"Quel che un giorno sarebbe stato chiamato 'il moderno' fu, almeno nella sua punta più nascosta e acuminata, un lascito del Buddha. Vedere nelle cose altrettanti aggregati e scomporli. E poi scomporre gli elementi scissi dagli aggregati, in quanto sono altri aggregati. E così oltre, nella vertigine" (p. 424).

"Per i ṛṣi, la parola cardine fu tapas, 'ardore'. Per il Buddha, fu nirvāṇa, 'estinzione'. Perfetta corrispondenza, agli antipodi. Inversione. Nella terra dove vissero, l'estinzione era considerata come un tornare a casa del fuoco, un ritrarsi nella sua dimora oscura. Presupposto comune dei ṛṣi e del Buddha: decisivo è ciò che avviene nel fuoco, con il fuoco" (p.426).

E poi Parinirvāṇa, la morte corporea di Siddhartha. I semi del moderno sono istillati. Garuḍa solleva il capo dai Ṛgveda e l'opera si conclude. Nel suo occhio aquilino, l'ultima sillaba letta è "Ka", Prajāpati, la mente che compose il mondo. Ma fu prima il mondo o fu prima la mente?

E chi è Ka? E chi è chi? Alla fine di ogni interrogativo, ci sarà sempre un cervello che tenta rovesciare il microscopio e vivisezionare se stesso.

Cos'altro si inventerà questo Calasso?

(articolo a cura di Sharon Tofanelli)

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