
Che c'entra Kafka con tutto quel che è stato detto finora? L'Opera Senza Nome ci ha condotti tra le nebbie del tempo e dello spazio, ha pieghettato la Storia francese come un ventaglio e spiccato mitologici balzi dalle coste greche alle montagne dell'India. Perché adesso Kafka? Perché rinchiudere il lettore nel claustrofobico, umido mondo di questo impiegato della Praga di fine secolo?
"Kafka nacque in un mondo dove la parte dell'immanifesto – la parte preponderante di ciò che è – sempre più veniva ignorata e rinnegata. Del mondo si sentiva dire che era nato dal nulla, senza che ormai si cogliesse l'enormità e la blasfemia di quelle parole. Blasfemia non rispetto a un Dio, ma rispetto al tutto. […] Il mondo ormai, nella normalità del suo funzionamento, sa fare a meno di ogni specie di Dio e di ogni specie di dèi." (Roberto Calasso, K., p.64).
In K. (Adelphi, 2002) Roberto Calasso concretizza e fa giganteggiare la sua idea di letteratura assoluta: una forma di scrittura fine a sé stessa, vergata quasi per possessione spiritica da autori che vivono "tutto come simbolo" (p.135).
Non è facile parlare di Franz Kafka e del suo annuvolarsi di narrazioni sfibrate. Amante della vertigine, il Direttore di Adelphi racconta delle tante esegesi, prodotte da autori schiavi di un impulso al commento senza fine. Questa indicibilità subentra con prepotenza anche direttamente nei principali capolavori incompiuti, Il Processo e Il Castello: se lo sfortunato Josef K. è destinato a non conoscere mai la natura del reato di cui è accusato, l'agrimensore K. si trova, come tutti gli abitanti del villaggio senza nome, a gravitare lungo la linea di confine tra questo e l'ignoto. È stato chiamato a lavorare al Castello, luogo dell'Oltre, ma proprio al Castello non gli è concesso di accedere: di fatto, la strada che si dirama dal villaggio curva e costeggia senza interruzione. E c'è la taverna, il porto franco dove talvolta i Signori del Castello si palesano, circondati da un sussiego che ha dell'ecclesiastico. Di costoro è Klamm l'apice sacrale: "Più che una persona, Klamm è una emanazione, un elemento, come l'azoto. «C'è già troppo Klamm qui» dice Frieda – e sembra parlare della composizione dell'aria. «Tu vedi Klamm dappertutto» replica K. poco dopo, da teologo a teologa" (p.79).
E poi le donne. "La via delle donne", come Calasso nomina il quarto capitolo, è un percorso che ha dell'iniziatico. Donne lascive, quelle dei due romanzi, donne officianti di un culto. Sia Josef K. che K. si appoggiano al potere femminile, che parrebbe l'unico tramite possibile col reame proibito (il Castello, il Tribunale). Questa schiera, che a suo tempo ha destato anche l'attenzione di Benjamin e Adorno, è descritta come appartenente a una dimensione ancestrale, preadamitica: voraci negli occhi, sessualmente predatrici, sono forse l'ultima giacenza di un'epoca al di là del tempo, quando gli dèi camminavano tra le cose terrene – e ciò spiegherebbe la loro natura di accesso ai Signori, ai magistrati, ai divini in definitiva. Calasso ricorda appunto come Frieda abbia aperto un foro nella porta dell'Albergo dei Signori, "che permette a K. di contemplare Klamm, immobile e forse assopito davanti a un tavolo, quella porta è l'iconostasi" (p.64), mentre le cameriere e le ostesse, frequentemente amanti discrete dei Signori, ne sono il tramite.
22 settembre 1912 è nientepopodimeno che la data di nascita di Kafka come scrittore: in una notte densa di pathos, il Praghese porta a compimento Il verdetto, dove "sembrano sfilare, in parata, i caratteri che poi si ritroveranno ovunque […] Da una parte si osserva il passo costante del narrare, con il suo tono pacato, ponderato, diligente. E dall’altra l’enormità, anche l’orrore dei fatti narrati" (p.155). Storia "d'insolente assurdità", ha la tipica introduzione da romanzo ottocentesco: un figlio ben avviato e in procinto di sposarsi; una lettera a un amico; un padre infermo e prepotente. Ma poi la pelle del racconto inizia a raggrumarsi andando avanti nella narrazione: ecco il padre farsi enorme e grottesco, la lite tra i due assumere un carattere di fastidiosa, scioccante intimità. La mostruosità che Kafka non spiega e che si limita a infondere, è destinata a serpeggiare in tutte le sue trame successive. Una coltre di schifezza ricopre da qui in poi la letteratura di Franz, sempre ben rastrellata da una prosa che non si scomporrà mai. Anche la tematica sacrificale, tanto cara a Calasso, ha un ruolo incisivo nella produzione kafkiana: da K. (Il Castello), che giunge al villaggio da fuori col desiderio di essere eletto; a Josef K. (Il Processo), che l'elezione/condanna vorrebbe evitarla, ovunque ricorre il concetto di estraniazione. Karl, protagonista de Il Disperso (alias America), è straniero per vocazione narrativa, e dello straniero che approda nel Nuovo Mondo ha "l'ingenuità epica" che al Direttore di Adelphi ricorda la fascinazione del primo cinema. Gregor Samsa (Metamorfosi) è protagonista di "una storia di porte che si aprono e si chiudono" (p.184), in cui la soglia si fa metafora di una demarcazione insanabile tra l'indicibile scarafaggio che è divenuto Gregor e la composta organizzazione sociale della sua famiglia in sala da pranzo. La dicotomia dell'ordine e del disordine, tanto affrontata nelle precedenti tappe dell'Opera, ha anche qui la sua espressione, così come la necessità che l'eletto/escluso sia irrimediabilmente sacrificato all'imperio della struttura.
Dell'autore de Il Processo Calasso avrebbe parlato ancora, sconfinando dai margini di K. Esce così postumo L'animale della foresta (Adelphi, 2023), libello da 146 pagine che approfondisce gli ultimi racconti. Brulicante di animali, poiché soltanto una forma di metamorfosi simile a quella di Gregor avrebbe potuto confarsi allo scopo, le narrazioni che precedono la morte dello scrittore di Praga manifestano l'angoscia dello scavalcamento, la disperata ricerca di qualcosa che sia oltre il definibile, oltre il raziocinio, oltre la letteratura non assoluta: "Allora Kafka tornò fra gli animali: fra i cani, i topi e tutti quelli che si costruiscono una tana" (Roberto Calasso, L'animale della foresta, p.125). Animali come Josefine, la cantante de Il popolo dei topi, con la quale sembra esprimersi la sostanziale inutilità dell'arte. Josefine subisce difatti un trattamento ambiguo: la colonia dei roditori è pragmatica, “troppo adulta”, così tanto da percepire il bambino represso che esplode. Il potere accordato a Josefine e al suo canto poggia su questo conflitto. Josefine, che solletica quel fanciullo ferito, è spesso criticata e mal tollerata, ma mai derisa, non sta bene, non si può. Josefine non può pretendere niente che il popolo già non abbia, o perderebbe il suo ruolo araldico e rappresentativo: non è credibile che si sia azzoppata, altrimenti "tutto il popolo dei topi avrebbe dovuto zoppicare" (p.50). Josefine è destinata a sparire, come la Storia che la contestualizza. E da questa percezione di fine e inutilità l'autore continua a scavare, letteralmente: La tana, racconto della paura atavica, dà una denotazione al Nemico che, nell'ottica di Calasso, è il perno di tutta l'opera kafkiana. Non più tribunali, burocrati, l'ordine sociale che "si sovrappone all’ordine cosmico fino a coprirlo e inghiottirlo" (K., p.34); ma la pura ferinità di creature che zampettano all'esterno e che permeano il terreno. Discosto dal mondo e tuttavia affiancato, l'ultimo Kafka incarna l'artista che ha scrutato il sublime negli occhi e che non può più prendere serenamente parte al mondo consueto, "con la sua sterminata foresta e i suoi territori di caccia"(L'animale…p.84).
Il Kafka dei sanatori e dei soggiorni tubercolotici ha ormai toccato la riduzione minima, "perché il mondo tornava a essere una foresta primordiale […] aveva troppa potenza. Perciò occorreva limitarsi a ciò che più era vicino, circoscrivere l'area del nominabile. Allora lì sarebbe defluita tutta la potenza, altrimenti diffusa" (K., p.15). Necessità del limite e dell'orchestrazione, come fa il Talleyrand de La Rovina di Kasch.
Kafka muore a Vienna nel 1924. La follia nazista, culmine degenerativo della distruzione focalizzata, investirà le sue sorelle. Lui, posseduto dall'Assoluto, ne aveva già dato anticipazione.
(articolo a cura di Sharon Tofanelli)
Bibliografia:
Roberto Calasso, K., Adelphi, 2002
Roberto Calasso, L'animale della foresta, Adelphi, 2023
Elena Sbrojavacca, Letteratura assoluta. Le opere e il pensiero di Roberto Calasso, Feltrinelli, 2021
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