
Mancava il tassello più lieve a questo mosaico che si compone. Mancava, tra i neri di Kafka e l'oro klimtiano del mito vedico, la tonalità confetto di un pittore trascurato.
Giambattista Tiepolo. "L'ultimo soffio di felicità in Europa", commenta il Direttore di Adelphi quasi subito, tempestando già il secondo paragrafo con una di quelle sue frasi a effetto, a cui ci ha ormai abituati. La quinta tappa della nostra vertigine risale al 2006 e, per citare un apprezzamento del compianto Umberto Eco, "ha la forma del suo oggetto". E in effetti, le ecfrasi che Calasso dedica alle composizioni dell'artista veneto hanno a loro volta la consueta politezza e ricercatezza di un dipinto.
Giambattista Tiepolo. Malvisto dai critici, scrive l'autore. Persino l'immenso Longhi si tolse la soddisfazione, in una conversazione immaginaria, di maltrattarlo per bocca di Caravaggio, suo eterno campione. Pittore di apoteosi e spalancatore di cieli nei soffitti, Tiepolo non aveva spazio per la verità. «A me non restava», dice al Merisi nel dialogo fantasticato, «che seguire i tempi che volevano, ad ogni prezzo, essere o sembrar felici» (Roberto Longhi, Da Cimabue a Morandi, Mondadori 1995, p.1029).
"Sembrar felici". Non fu sincero mai, Giambattista; e se anche lo fu, gli toccò esprimersi per vie sibilline, celando il proprio mistero ove nessuno sarebbe mai stato in grado di scovarlo con facilità: cioè in piena vista, occhieggiante in vetta agli scaloni principeschi. Nascosto poi nelle vestaglie delle donne di Proust – il termine "rosa Tiepolo" è estrapolato dalla Recherche – il veneto cova se stesso dove più sventola la superficialità della vita: nei tessuti da camera, nei saloni di un palazzo tedesco, nei paragrafi infiorettati che lo stesso artista vergava per i suoi estimatori e protettori, cercando di procacciarsi commissioni a suon di sgrammaticati salamelecchi. Ed è in questa comprensione ammantata di frivolo che Calasso ritrova Baudelaire, che mai conobbe il nostro artista della decadenza, ma che probabilmente lo avrebbe apprezzato:
«Ciò che Baudelaire evocava era quel soffio onniavvolgente che non spirava più nella pittura dopo la Rivoluzione Francese. E quel soffio aveva un nome: Tiepolo. Tutto l'Ottocento era marchiato, come un armento, da quella mancanza.» (Roberto Calasso, Il rosa Tiepolo, Adelphi 2006, p.23)
Chi ci ha seguiti lungo le tappe della vertigine calassiana non farà troppa fatica a cogliere il senso di quel "soffio", quella facilità perduta: sono i rituali vedici, sono i dettami dell'etichetta cortese, sono i metri che inquadrano il grande Caos del mondo. La maschera che tiene insieme i lineamenti facciali dell'umanità, sempre in procinto di disgregarsi nell'angoscia:
«Ma per Tiepolo la parola realtà non poteva essere usata come parola d'ordine […] Se mai, sarebbe stato capace di diventare il Talleyrand della pittura.» (p.33)
Il "Talleyrand della pittura", Maestro di una corte assediata, è oggetto di un testo denso di immagini. I tre capitoli che lo compongono tracciano dapprima la sua figura, provvedono a incastrarla nel diadema: come si inserisce Tiepolo nel sistema dell'Opera senza Nome? E successivamente – e qui il compendio iconografico si fa ricchissimo – Calasso affonda lo sguardo nella produzione più oscura dell'artista dei soffitti: gli Scherzi e i Capricci, una serie di trentatré incisioni dalla tematica ignota e caratteristiche che si ripetono. Folle più o meno grandi, radunate apparentemente attorno al nulla e circondate da silente desolazione. Talvolta vi è un serpente, talvolta del fuoco, e qui il Direttore di Adelphi è preda della digressione che lo caratterizza: subito viaggiamo tra gli idoli biblici e la storia della teurgia, tra i rettili miracolosi di Jahvè e la figura ossessiva del vecchio orientale. In effetti, e Calasso lo afferma già nelle prime pagine, il repertorio di Tiepolo comprende una tipologia ristretta di individui: c'è sempre una donna giovanissima, fulva, gli occhi piccoli e sporgenti, e al suo fianco un vecchio canuto; si ripetono i cagnetti da grembo, certi valletti dall'espressione assorta e i panni dalle nuances pastellate; ricorre una vecchia elegante, dalle vesti scure e la gorgiera complessa come una trama di zucchero. E poi gli orientali, ovviamente. Caldei, o persiani, o magari indiani, uomini dai lunghi caftani, piovuti in scena da chissà dove e che Tiepolo pone ai margini delle sue apoteosi, tanto sacre quanto profane. Se ne stanno lì, in disparte, sovente parlanti o gesticolanti, ma perlopiù intenti a osservare, come fa il secondo uccello nella metafora vedica dei due uccelli appollaiati sul ramo: il primo mangia, ma l'altro? L'altro, che è quel che si può tradurre come Sé impersonale, lo contempla mangiare. Ci fu un orientale, riporta Calasso, un Caldeo che fu testimone della morte di Platone. Il filosofo, paragonandoli agli orientali, definiva i Greci "sempre bambini". Questi antichi, che Tiepolo dissemina nei suoi soffitti, sono forse i depositari di un segreto che sta sparendo dinnanzi alla logica occidentale, e l'autore li pensa intenti a celebrare un rito – ancora il sacrificio vedico, ancora lui. E mentre la pomposità delle corti di Venezia esplode di maschere e teatri, c'è sempre un rituale che si consuma in silenzio, in disparte, divampando nelle misteriose incisioni che nessuno storico dell'arte ha ancora compreso, liquidandole perlopiù come fantasticherie del pittore. Eppure, «sono quanto di più esoterico si concesse l'epoca che più di ogni altra fu nemica del segreto» (p.104): l'apice dell'idolatria, poco prima che i venti dell'Illuminismo disperdessero i suoi castelli di carte.
Ne Il rosa Tiepolo le immagini sono appiglio per gli slanci che sappiamo – e chi lo conosce si ricorderà anche delle opere di Winfried G. Sebald, altro prediletto Adelphi, in cui testo e icona si compendiano a vicenda: Vertigini (2003), Austerlitz (2006), Gli anelli di Saturno (2010). Una serie di discorsi che divampano a partire da una scena, da un volto, da una formula ripetuta. E di fronte a certi personaggi Calasso è un po' come l'Aby Warburg che si innamora dell'ancella del Ghirlandaio, intravedendo in lei la trasfigurazione di una ninfa antica e ricercandola in altre pitture, persino in alcune donne reali.
L'ultimo capitolo, ancora assorto nel tema, fa anche i conti con la morte di Tiepolo, consumatasi in Spagna e presto dimenticata. Avversato dal francescano Joaquín de Eleta, confessore del Re, e minacciato dall'astro ascendente del neoclassico artista Mengs, era percepibile «per quali motivi un velario opaco stesse per coprire lo scintillio tiepolesco» (p.248): l'obiettività della ragione doveva scendere sui teatri, sui sogni, sul fascino delle analogie Ancien Régime. E la pittura di Tiepolo, come le danze classiche indiane, dovettero codificare il proprio mistero dietro gesti apparentemente fini a se stessi. Come Baudelaire, Hölderlin, Lautréamont e Mallarmé, anche il veneziano del diciottesimo secolo si fa depositario e tramite di un demone senza più voce. E la letteratura assoluta sa farsi immagine, come già testimoniavano in K. (R. Calasso, Adelphi 2005) i disegni di Kafka.
L'ultima immagine che ci propone Il rosa Tiepolo è una delle ultime opere, a dimensione ridotta, a tematica devozionale. Maria, Giuseppe e il Bambino si riposano ai piedi di un fiume. Silenzio, paesaggio assorto, corpi distanti e indistinti. Lo spettacolo è finito: sul palco vuoto, indugiano i vecchi attori.
(articolo a cura di Sharon Tofanelli)
Bibliografia:
Roberto Calasso, Il rosa Tiepolo, Adelphi 2006 (2018), ISBN 9788845933172.
Roberto Longhi, Da Cimabue a Morandi, Mondadori 1995, ISBN 9788804107293.
Elena Sbrojavacca, Letteratura assoluta. Le opere e il pensiero di Roberto Calasso, Feltrinelli 2021, ISBN 9788807105555.
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