
Dopo Tiepolo, Baudelaire. L'idolatra segue il pittore da presso, come fa lo strascico con la sua sposa. Reca con sé una trafila d'immagini, «come se la scrittura fosse innanzitutto un'opera di trasposizione da un registro all'altro delle forme» (R. Calasso, La Folie Baudelaire, Adelphi, 2008, p.23). Perché anche in questo sesto volume dell'Opera senza nome il comparto iconografico è grande e si intrattiene col testo in un gioco di rimandi e rimbalzi.
D'altronde Baudelaire - o meglio, l'onda Baudelaire, la Folie ("padiglione") che compone il titolo – è quanto c'è di più calzante con la letteratura assoluta. La quale, ripetiamolo, è per Calasso quanto più si rapporta a quell'ignoto dai mille nomi (Dio? Inconscio? Natura?) che l'Età dei Lumi ha preteso di sigillare. Ecco che, dopo Tiepolo e Kafka, Roberto Calasso si profonde su Charles Baudelaire, ennesima voce anacronistica e incompresa. Come altre opere del Caleidoscopio che stiamo affrontando, anche in questa sussiste un alone, una permeabilità della carta, come se il lettore stesse scrutando una miriade di tasselli che si sparpagliano su un fluido denso. L'ombra di qualcosa aleggia sui brani e li impregna del medesimo odore. Siamo di nuovo a Parigi, la Parigi de La rovina di Kasch (Adelphi, 1994), e il fatale Congresso di Vienna ha sancito la modernità. Seguiamo i passi del poeta maledetto, le sue lettere, le sue inadattabilità. Fedele al titolo che ha scelto, Calasso indugia tra le chincaglierie del padiglione. Si è rifatto a Sainte-Beuve, critico pugnalatore, che in un feroce articolo chiamò Folie Baudelaire un luogo dalle forme eclettiche, «dove si leggono libri di Edgar Allan Poe, dove si recitano sonetti squisiti, dove ci si inebria con hashish per ragionarci poi sopra, dove si prendono oppio e mille droghe abominevoli in tazze di porcellana finissima» (p. 311). A questo chiosco sperduto nel deserto, «assai tormentato, ma civettuolo e misterioso», Calasso dedica il suo sesto tributo. Chi si inoltrasse nella lettura, scoprirà ben presto che la morte di Baudelaire non è sufficiente a sigillarne l'ingresso: stuoli di pensatori e artisti, da allora, albergheranno sotto il padiglione di Charles, da Proust a Rimbaud, fino a Kafka e oltre.
Se il mito orientale di Far-li-mas e del sovrano di Naphta irrompeva al centro de La rovina di Kasch e ne dirigeva la danza, ne La Folie Baudelaire tutto si accartoccia a pagina 161 su un sogno del poeta, una delle sue poche narrazioni in prosa. Ci racconta di un bordello oscuro, dei suoi piedi scalzi, dei quali si vergogna («Baudelaire fu un sommo perito dell'umiliazione», p. 55). Appese alle pareti sono tante immagini, rovesciamento ctonio degli affollatissimi Salons che il poeta visitava regolarmente e recensiva. Raffigurazioni oscene, architetture, e improvvisamente l'Egitto:
«Là dove torna l'Egitto, c'è il segreto. Da più di quattro secoli, ogni volta che ci si avvicinava a un mistero, si precipitava nell'Egitto. E in fondo non si era fatto altro che rinnovare un sentimento dei tempi di Platone, quando i greci si sentivano ignari e infanti rispetto all'Egitto. […] Quelle "vaste gallerie" avevano qualcosa di un edificio templare.» (pp. 181-182)
L'intera esistenza di Baudelaire si riassume in questo incedere tra i simboli, e al lettore basterà scorrere un istante lo sguardo su Corrispondances, gemma dei Fleurs du Mal, per capirlo.
«Tale è la condizione della sua vita, immersa nella "oscurità naturale delle cose". Come la vita di tutti, anche di coloro che non sanno di vivere in mezzo ai geroglifici. Ancora una volta, la differenza decisiva è solo nella coscienza, come fra il puro male e la "coscienza del Male". L'atto di raccontare è la prima – forse anche l'ultima – forma della coscienza» (p. 164)
Echeggiano le bizzarrie di Sir Thomas Browne e dei suoi geroglifici, ma in forma più viscerale. E se i misteri orientali di Tiepolo serpeggiavano sotto un sole urticante e liscio, quelli di Baudelaire hanno una consistenza pelosa e si consumano nel buio. Alle immagini egiziane seguono poi stampe scientifiche, feti anomali che alcune donne del boudoire hanno partorito. Il postribolo diventa museo, il più scientifico dei musei, con la sua trincea di didascalie a schierarsi contro l'ignoto. D'altronde, che mai sarà la modernità, se non la musealizzazione di ogni tempo, di ogni cultura, di ogni diversità di punto in bianco sradicata? Al saltar via di tutti i chiodi, i quadri precipitano sugli astanti, e «tutto convergeva verso un immenso magazzino di trovarobe» (p. 197): è l'epoca di Salambbô, dell’hashish, della fuga africana di Rimbaud. L’onda Baudelaire travolge tutte le comparse ed è un fine gioco leggere il pensiero e le vicende che le coinvolgono, alla ricerca del contraccolpo, delle prove dell'impatto. L'opera calassiana, anche questa, non è che un sorridente gioco di specchi tra i personaggi, il testo e le immagini, che si amplifica nell'edizione di lusso (La Folie Baudelaire, Adelphi, 2012); qui il comparto iconografico si estende a 281 illustrazioni senza didascalia, che si intrecciano alla narrazione per vie più o meno limpide. E capita anche che rivolgano il dialogo tra loro, ammiccandosi in silenzio: si pensi, esempio tra tanti, allo scatto della efebica Marlene Dietrich in abito da uomo, che nella stessa pagina si accompagna a un ritratto ad acquaforte di Baudelaire similmente abbigliato.
Ma cosa c'è di amabile in quest'Opera senza nome, che spinge a portare avanti centinaia di pagine che divagano, che si sparpagliano, che affermano senza dire? Si può rispondere: c'è il divino. O l'ignoto, oppure l'oltre, lo si chiami come si preferisce. Il Direttore di Adelphi non si limita a raccontare il disfacimento della modernità: ci affoga meravigliosamente nella percezione, nella confusione, nell'epifania di essa. Giriamo assieme a lui attorno al padiglione baudelairiano, tra Flaubert, Proust, Ingres e Degas – nulla si è detto dell'importante porzione destinata agli artisti figurativi; ma se seguissimo tutte le briciole disseminate da Calasso, se ne dovrebbe fare un libro (il ché è già stato fatto). Come Baudelaire, discendiamo tra i geroglifici fino al cuore del bordello, dove – e qui culminava il sogno raccontato dal poeta – un essere malformato siede su un piedistallo, contemplato da tutti come in un tenebroso freakshow.
«Chiacchiero a lungo con il mostro», scrive Baudelaire. «Non oso toccarlo – ma mi interesso a lui.» (p. 167)
Che mai sarà questa creatura, se non lo stesso poeta? E cosa abbiamo letto finora?
Ecco cosa c'è di amabile: il costante domandarsi e vorticare.
(articolo a cura di Sharon Tofanelli)
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