Laura Forti è una scrittrice e drammaturga fiorentina che abbiamo avuto il piacere di intervistare in occasione dell'uscita del suo ultimo libro, La figlia inutile (2024, Guanda). L'autrice racconta la storia della sua famiglia partendo dalla figura centrale della nonna materna Elena, affrontando temi preziosi come la memoria, la libertà e la politica.
Cosa significa scrivere un'autobiografia e quindi descrivere in modo sincero e autentico il proprio passato e quello della propria famiglia? È stato per lei una necessità o un desiderio (o magari entrambi)? Inoltre nel libro esprime chiaramente la sofferenza che hanno provocato tutte le ricerche fatte, cosa l'ha spinta a continuare?
Non credo tanto al concetto di autobiografia: tutto è autobiografico e niente lo è. Quando si scrive si creano personaggi utilizzando il nostro vissuto ma anche pezzi di altre persone, di altre storie, persino se si tratta di una vicenda sulla propria famiglia. In questo caso poi avevo pochi documenti di partenza, una memoria piena di buchi, perché le tracce erano state mangiate dal tempo, da guerre, persecuzioni e pogrom, per cui ho dovuto necessariamente immaginare, ricreare, fare il lavoro che fa lo scrittore più che lo storico - che del resto non sono. Mi sembrava importante rimettere un ordine in una storia che veniva proposta in casa sotto forma di leggenda ma da cui erano estromessi i sentimenti e i percorsi interiori dei protagonisti e io ero interessata soprattutto a quella dimensione invisibile. Essendo vicende che si sono intrecciate con dittature, esili e traumi storici importanti del Novecento è stato anche un viaggio doloroso, disturbante, perché se mi calavo nei panni di questi personaggi riuscivo a sentire al loro posto tutta quello che avevano provato (e rimosso) loro. Paura, rabbia, sensi di colpa, frustrazioni, fallimento, sconfitta, nostalgia, speranza. Riuscire a ridare un'umanità a figure finora raccontate o viste in fotografia (a parte mia nonna che ho conosciuto di persona) è stato quello che mi ha spinto a continuare. Sentivo di riempire un vuoto scavato dalla Storia che finalmente riacquistava pienezza e significato.
Nelle pagine del primo capitolo dice che "il personaggio Elena fa già capolino in diversi libri che ho scritto". Quando ha finito di scrivere si è chiesta che cosa Elena avrebbe pensato di questo libro in particolare?
Penso che ne sarebbe stata contenta, anche se probabilmente non avrebbe capito le mie intenzioni. Infatti il libro ha la finalità di operare un confronto tra quello che prova oggi la nipote, una discendente, e queste vicende, entrare in rapporto con i valori di una famiglia di esuli che necessariamente hanno dovuto rinunciare a tante sfumature, fare scelte spesso dettate dalla necessità.
È un romanzo che, come ha detto, attraversa la storia di molteplici paesi e in particolare si confronta con dittature e totalitarismi. In un'Europa di nuovo in guerra (con anche il conflitto Israelo-Palestinese che ci ricollega all'ebraismo) e con sempre più governi estremisti, che importanza e che ruolo ha questo racconto?
Non ho scelto io il contesto familiare, mi sono ritrovata una famiglia che è sfuggita a tre dittature lo zar, Mussolini e Pinochet, ha fatto tre esili e ha avuto molte perdite in tutte e tre le situazioni. Toccare contesti storici complessi ci costringe a studiarli, per capire e approfondire evitando la superficialità e il generalismo. La nascita del sionismo - parola oggi abusata e urticante - deriva dal far fronte a una grande emergenza umanitaria: dare una casa a centinaia di sfollati ebrei in fuga da pogrom e guerre che non avevano più niente e cercavano solo un luogo dove mettersi in salvo. Questo luogo divenne la Palestina, allora paese aspro dove abitavano ancora diversi nuclei ebraici che non avevano mai lasciato la terra e ebrei che dal Rinascimento vi avevano fatto ritorno. Quel popolo di disperati, che rischiava la vita, aveva diritto all'autodeterminazione, a avere una patria dove stare al sicuro. Come ne ha diritto il popolo palestinese, se vogliamo fare un richiamo al giorno d'oggi.
A proposito di ebraismo, qual è adesso il suo rapporto con la religione e con le tradizioni ebraiche?
Mi sento molto ebrea anche se ho un rapporto laico e personale con la religione che trovo estremamente affascinante conoscere. Seguo le feste. Essere ebrea fa parte della mia identità, ma è un cammino aperto e ogni volta imparo qualcosa. Essere ebrea per me significa anche prendersi cura del mondo, cercare di riparare al male, alle sue storture, all'ingiustizia, perseguendo un mio piccolo "tikkun olam", magari proprio con la scrittura che mi aiuta a elaborare e a trovare un barlume di speranza per me e per gli altri, dopo essere passata per le ombre dell'essere umano.
Un altro grande tema di questa storia è l'identità; identità che cambiano, che spesso forzatamente devono essere modificate. Lei ha ereditato quello che chiama il "trasformismo" dei Dresner o riesce a rimanere fedele a se stessa?
Credo di avere fortunatamente un "sé" più compatto perché sono fortunata, vivo in un paese che non è in guerra, nella stessa casa da anni, ho una famiglia solida, un cane, due gatti, non devo cambiare nome, non devo rinunciare al mio lavoro per farne un altro che non mi piace perché costretta dalla povertà. Diciamo che più che fedele, sono alleata con me stessa e credo di aver raggiunto un buon equilibrio, per cui non ho bisogno di fingere di essere altro da me.
Una delle figure che più è emblema di questo trasformismo è il suo bisnonno Giulio, nei confronti del quale durante la narrazione dimostra di provare sentimenti contrastanti: rabbia, compassione, ammirazione, disapprovazione. Oggi, dopo aver attraversato questa tempesta emotiva, qual è il sentimento che prevale?
Provo una grande tenerezza per Giulio (che poi si chiamava Jeszsaja, poveretto, non gli lasciarono neanche il nome giusto all'anagrafe pagina). Era un esule che voleva farcela, come un migrante dei giorni nostri, voleva essere accettato, amato, trovare una casa. Si trovò a fronteggiare situazioni storiche complesse, prima di tutte far carriera da ebreo in un paese cattolico come l'Italia, oltretutto sotto la dittatura fascista. […] Comunque io non giudico mai i personaggi, cerco di comprenderli, anche se fanno azioni discutibili. Cerco di capire che cosa li ha portati a compierle. Nel caso di Giulio era spinto dal desiderio di farcela, per sé e per la sua famiglia, agendo da solo in un mondo ostile.
Come è evidente dalle parti più intime del libro, dimenticare per lei è quasi un'azione immorale. Concludo quindi chiedendole: cosa vuole dire a coloro che sempre più facilmente dimenticano il passato e non danno la giusta importanza alla memoria collettiva?
Chi dimentica non può essere completo. La nostra identità si basa su quello che è stato, sulla memoria storica, che va studiata e conosciuta e poi sugli incontri che facciamo nel presente e ci insegnano e ci cambiano. Identità è un concetto aperto e ci vuole tutta la vita per definirci. Chi dimentica sarà sempre costretto a rifare gli stessi errori. Il nostro paese, l'Italia, non ha mai fatto i conti con fascismo e antisemitismo e forse neanche l'Europa ed ecco che puntualmente razzismo e paura dell'altro tornano fuori con esiti nefasti. Se non facciamo noi il lavoro di portare la memoria, adesso che i sopravvissuti alla Shoah per esempio stanno scomparendo, chi lo farà? Che paese diventerà il nostro, cosa diventerebbe se negasse la lotta per la libertà dei partigiani, i soprusi subiti dai deboli, che identità, che valori avrebbe? Saremmo fieri di viverci?
(articolo a cura di Sveva Serra)
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