
"Se provo a pensare a quello che ho fatto, devo dire che certamente non sapevo mai quale sarebbe stato il prossimo passo."
Così scrive Calasso, così recita a pagina 13 l'incipit di Opera senza nome, Adelphi, 2024. Pubblicazione postuma, perché il Direttore della Casa Editrice milanese è spirato nel 2021. Poco più di 150 pagine per pennellare i tratti di un percorso letterario che dagli Anni Ottanta sfugge ai tentativi di classificazione e che la morte dell'Autore stronca sulla tappa undicesima, La Tavoletta dei Destini, Adelphi, 2020. L'ultimo tassello della caleidoscopica "Opera senza nome" si consuma in 139 pagine. Come nei titoli che lo precedono, si stenta a collocare gli attori, il mondo è fluttuante e ondivago come una stampa del Giappone. Vi si narra di Sindbad il Marinaio e del suo impossibile incontro con Utnapishtim il Remoto, antesignano mesopotamico di Noè. Il luogo è Dilmun, vuoto che si espande in ogni direzione, al di là del fiume Apsu, dove conduce la sua vita che non si consuma. A pagina 43, unica immagine del libro, Dilmun: protuberanze coniche che punteggiano il nulla, ordinate come numeri, paurosamente immobili.
Un dialogo sfilacciato nel tempo – giorni, settimane, mesi? – scorre tra i due naviganti e cancella la cornice narrativa che li dovrebbe avvolgere. Mai nell'"Opera senza nome" abbiamo avuto a che fare con un testo interamente imperniato su un dialogo. E chi dovesse affrontare La Tavoletta dei Destini potrebbe notare un'altra caratteristica, per la prima volta nell'intero ciclo: l'assenza di fonti di riferimento. Perché la voce di Utnapishtim è quella di Calasso, senza citazioni né prestiti. È pura letteratura, senza citazioni, arresti, aforismi. E nelle parole di questo narratore stanco, condannato a una solitaria immortalità, si dispiegano le antiche storie mesopotamiche ed è la medesima storia che già conosciamo e che si ripete sotto una pelle differente. Come in Ka, occorre il sacrificio di un essere affinché la vita si crei. Ed è Geshtue, di cui solo sappiamo che era intelligente. Col suo sangue gli dèi Anunnaki fabbricano gli esseri umani, affinché fatichino in loro vece e si accollino il peso della morte:
"Da soli, gli Anunnaki si sarebbero persi in perpetui conflitti. Ma Ea disse le parole decisive: «Che gli uomini portino il peso degli dèi!». Parole semplici, di cui tuttora viviamo. Di cui tu, Sindbad, vivi. Dicono l'essenziale: il peso, gli dèi. Tutto il resto è un'aggiunta" (p. 16).
Fin da qui, all'origine della civiltà, risulta necessaria la sostituzione. Gli dèi stessi sono limitati e le storie rimarcano questi limiti insormontabili. E così, come il genere umano deve faticare al posto del divino, occorre che sia un uomo, Dumuzi, a immolarsi agli Inferi per scagionare Inanna, la dea che ha sconfinato nel Regno dei Morti. Ma l'immortalità non è compatibile con gli Inferi:
"Se gli dèi dovevano estendersi a tutto, non potevano nascondersi che gli Inferi erano fuori dalla loro portata. Non gli era concesso di convivere con la morte e con i morti. E questo li diminuiva. Evitavano anche di parlarne. Gli Anunnaki si accorsero di essere dèi fino a un certo punto" (pp. 51-52).
E si contendono il potere, gli esseri divini. E il potere è possedere i me, le potenze. E la Tavoletta dei Destini, senza i quali "nessuno poteva dirsi sovrano" (p. 93). Emersa dall'Apsu, il fiume sotterraneo, l'Abisso, la Tavoletta sancisce il potere di colui che la porta indosso. Sulla Tavoletta, Calasso scrive, è scritto l'ordine. E l'ordine precede gli dèi, li ingloba. Qualcosa al di là delle storie e dei concetti espressi, qualcosa che a tutto sottostà e che rifugge al ridimensionamento della mente. Così deboli sono gli dèi, così fragile è l'equilibrio che li sostiene, che si infrange ogni volta che la Tavoletta è dispersa, o rubata, o contesa. Il corpus mitologico si dispiega nella voce di Utnapishtim, che in un'imbarcazione cubica ha preservato la vita dal Diluvio, Diluvio voluto dagli Anunnaki poiché "gli uomini non facevano che moltiplicarsi e il loro chiasso era sempre più molesto" (p. 22). Utnapishtim è guidato da Ea, "l'unico dio che sapeva parlare anche contro gli dèi" (ibidem), che più di tutti ricorre nelle sue storie, detentore di un sapere imperscrutabile. Perché Ea è colui che ha ucciso Apsu, l'Abisso progenitore, e che in Apsu, nel suo corpo morto che è il fiume, ha preso dimora. Se Ea ha ucciso Apsu e abita in Apsu, Ea ha sostituito Apsu. E da Apsu è emersa la Tavoletta dei Destini, l'ordine che tutto precede. Ea l'Imperscrutabile ha fatto di Utnapishtim il prescelto del Diluvio e poi l'Immortale. Utnapishtim racconta a Sindbad, il primo essere incontrato in secoli di solitudine. Un narrare necessario e inspiegabile:
"Non sono mai venuto a capo di questo: se gli Anunnaki mi hanno dimenticato, qui a Dilmun, qualche tempo prima di venir dimenticati essi stessi; o se invece mi hanno lasciato qui perché avrei avuto un ruolo preciso, quello che ho con te e probabilmente non avrò più: trasmettere storie" (p. 137).
Sindbad, che Le mille e una notte hanno educato all'ascolto, prende su di sé le storie di Marduk, di Gilgameš, degli Anunnaki, e le intreccia alle proprie. Immagini che si ripetono a malapena differenziate. E si ricorda di un altro vecchio, incontrato durante un naufragio:
"Mi caricai il vecchio sulle spalle e cominciai a camminare. Ci fu un momento preciso in cui mi accorsi che le sue gambe mi attanagliavano il collo senza rimedio. Erano una morsa che non riuscivo ad allentare. […] Fu l'inizio di giorni disperanti. […]" (pp. 85-86).
Oppresso da quel peso orrendo, Sindbad se ne scampa inebriando il vecchio con succo di zucca fermentato. Fugge poi senza voltarsi indietro, un battello lo soccorre. Racconta la vicenda, poiché non può tacere.
"Uno dei marinai mi disse: «Ma certo, era il Vecchio del Mare. Hai avuto molta fortuna. Di solito, chi lo incontra non torna a raccontarlo». A volte mi hanno chiesto: a che serve l'ebbrezza? Ora lo so: a liberarsi dalla morsa del Vecchio del Mare. Ma prima bisogna incontrarlo" (p. 87).
Ma chi è il Vecchio del Mare e cos'è l'ebbrezza? Quali storie, quali convenzioni si frappongono tra il nostro collo e la morsa di quelle gambe? Ci è necessario raccontare, tessere reti sempre più fitte, come questa "Opera senza nome", i cui testi sono "simili a isole nella corrente di un mare illimitato", ove "unica è solo la corrente che sostiene l'insieme" e che "non si avvicinano mai quanto basta per unirsi, al massimo raggiungono una prossimità sufficiente per azzardare fragili ponti". (Opera senza nome, p. 18)
Ma questa parentesi, Lettore, rimarrà aperta. Non c'è risposta nel caleidoscopio di Calasso. E così si conclude, con le ultime parole di Utnapishtim, remoto come l'Autore in un mondo che non è più il nostro:
"So che stai per partire. È quello che hai fatto sempre. Anch'io continuerò a fare quello che ho fatto sempre: rimanere vivo" (La Tavoletta dei Destini, p. 139).
(articolo a cura di Sharon Tofanelli)
Bibliografia:
Roberto Calasso, La Tavoletta dei Destini, Adelphi, 2020, ISBN 9788845935121
Roberto Calasso, Opera senza nome, Adelphi, 2024, ISBN 9788845938931
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