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Prima di questa tragedia ne esisteva un'altra, intitolata Ippolito velato, che Atene criticò aspramente perché giudicata scabrosa e immorale, al punto che, qualche anno più tardi, l'autore deciderà di riscriverla, dandole il nome di Ippolito coronato. Questa informazione è una chiave di lettura imprescindibile per leggere l'unico Ippolito che a noi oggi rimane e seguire il doppio discorso che Euripide ha voluto portare in scena.

Il linguaggio della tragedia, infatti, si apre attraversando due strade: quella della rappresentazione scenica e quella sottile, critica e ironica dell'autore. La critica di Euripide è qualcosa di profondo e, come tale, si presenta invisibile all'occhio, dimorando il sottosuolo di tutto l'intero dramma. Euripide usa un linguaggio strano, un linguaggio quasi dell'imbroglio: da una parte "accontenta" coloro che, anni prima, lo hanno censurato, soddisfacendo in questo modo i gusti del pubblico ma, allo stesso tempo, inserisce magistralmente delle critiche puntigliose rivolte ad una società comodamente seduta a teatro, che si presenta ancora troppo impreparata al racconto della realtà e della complessità umana e che, al posto di voler conoscere in profondità il rischio dell'abisso come una delle possibili strade della psiche, chiede costantemente, sia nella realtà sia nella finzione scenica, la sicurezza di una divinità che guidi gli affari degli uomini e di cui gli uomini si sentiranno sempre più vittime e sempre meno responsabili.

La Fedra dell'Ippolito velato è un personaggio inaccettabile per il pubblico ateniese di quell'epoca: l'idea che una donna potesse essere accecata da un desiderio sessuale forte, partorito naturalmente dai propri sensi senza alcun intervento divino, nei confronti del proprio figliastro, era considerato qualcosa di intollerabile. Il commediografo Aristofane non perderà un attimo a considerare il personaggio femminile di Fedra una vera e propria "puttana". Euripide, quindi, nella sua genialità, decide di riscrivere questa storia, rendendola apparentemente più accettabile, ma effettivamente più immorale di prima perché azzera e sovverte completamente i valori religiosi tradizionali, mettendo sullo stesso piano e definendo su un'identica linea gli uomini e gli dei, demistificando l'assolutezza religiosa e frantumando la speranza dei devoti ateniesi nei confronti di un divino invisibile. Il tragediografo, quindi, attraverso il deficit religioso, riporta in auge il libero arbitrio degli uomini, le volontà, come volontà proprie, i desideri, le trivialità, la follia, evidenziando l'ignoranza dell'uomo con un'ironia così sottile che, probabilmente, l'ateniese del tempo non ha potuto rintracciare, dal momento che quell'anno Euripide vinse la gara tragica, portando a casa una doppia vittoria: quella teatrale e quella di critica sociale. Detto ciò, il discorso potrebbe anche chiudersi qua, si potrebbe evitare di parlare del contenuto della tragedia, dal momento che, in questo caso, il progetto della tragedia in sé è già realizzato nell'idea stessa dell'opera. Ma dal momento che il dibattito non può esistere senza la bellezza, è doveroso e meraviglioso parlare anche del suo contenuto.

Chi è veramente il protagonista di questa rappresentazione? Certo, il titolo sembra non porre nessun dubbio, eppure non è così facile come sembra, oppure, per quanto detto prima, è più facile di quanto si possa immaginare. Leggendo e rileggendo il testo, ci si rende conto che nessuno tra i personaggi, portatori di nomi, è veramente capace di far avanzare l'azione. L'unico "protagonista" che muove il dramma nella sua interezza, e per cui, secondo me, ricopre importanza tanto da poter essere definito tale, è il capriccio di Afrodite.
Un "vizio" quello della dea, considerato da lei stessa un atteggiamento identico a quello umano, soggetto alle stesse leggi e onnipresente in qualsiasi movimento scenico, sia nei termini di una passione sia nei termini di una repressione e soppressione. Apre la scena un'Afrodite vendicativa, infuriata da una gelosia capricciosa e infantile, diremmo noi oggi. La vendetta miserabile della dea si manifesta nella pulsione disastrosa di un eros che, topicamente, scioglie le membra, debilita fisicamente e ammala di una strana follia. Un eros che lascia tracce patologicamente sintomatiche, lontano dai fenomeni di generazione e rivitalizzazione, privato di ogni ritmo e unicamente risolto nel desiderio di morte. Non è possibile pensare Fedra come una donna innamorata, semmai, come una donna malata d'amore, divisa tragicamente in due tempi: la follia e la lucidità.

L'eros come evento traumatico canalizza il suo percorso in questa divisione che alterna incoscienza, delirio e visioni estatiche, privando, temporaneamente, il soggetto della sua identità, per poi farlo rinsavire con coscienza lucidamente moralizzata e profondamente segnata da un dolore incontrollabile. È stata la tradizione occidentale successiva a far risaltare nel ruolo di personaggi agenti Fedra e Ippolito, perché nel "caso euripideo" sembra che la donna rappresenti, principalmente, ma non unicamente, il mezzo necessario per arrivare al fine di una vendetta funesta progettata ai danni del cacciatore Ippolito. Sono personaggi che non possono essere considerati davvero dinamici, perché è solamente nella loro opposizione all'azione che si muovono con fervore, pur sapendo di dover raggiungere necessariamente la morte. È difficile simpatizzare per qualcuno, né Fedra né Teseo né Ippolito sembrano personaggi con cui potersi identificare, ognuno di loro è soggetto di un inganno o oggetto di un imbroglio. "L'anima vergine" di Ippolito e "l'anima sporca" di Fedra si incontrano sulla pagina pronunciando un simbiotico linguaggio, esasperato ed esaltato dall'assenza e dalla distanza, che non permetterà mai di ritrovarsi insieme sulla scena e, proprio in questo individualismo, che procederà solo per negazione e opposizione, Euripide condurrà volutamente l'uomo e la donna verso una morte irrevocabile privati di qualsiasi virtù eroiche, ma solo dentro un distruttivo e accecante desiderio profondo dell'umano.

(articolo a cura di Miriam Di Miceli)

Fonte:
Euripide, "Ippolito" Feltrinelli 2014, a cura di Davide Susanetti

 

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