Do il mio contributo a questa discussione, con argomentazioni ch'io spero risultino - secondo la classificazione proposta dal saggio che ci sta illustrando Guido

- di tipo A1 o perlomeno A2, ma che soprattutto vorrei evitare ricadessero in A3
Ricordo che ancor prima di sfogliare l’ultima pagina del libro, avevo pensato: questo romanzo entrerà diretto nella mia personale top ten di tutti i tempi. Ed ora, terminata la lettura, confermo: bellissimo; sia per forma, sia per contenuto.
Ripercorrendo i commenti di chi m’ha preceduto m’è parso tuttavia di cogliere una mancanza. Chiarisco: non è che non sia d’accordo con tutto quanto è stato detto (la Sicilia, i siciliani, l’immobilismo, il cambiamento, il trasformismo, la nobiltà, il Gattopardo …), ma un tema – ch’io ho invece percepito come principale e fondamentale – sembra sia sfuggito.
Qual è il vero significato di un’opera – per molti versi singolare nel panorama della letteratura italiana - come
Il Gattopardo? E’ solo un romanzo storico, come viene generalmente etichettato? E’ una denuncia sociale? E’ nostalgia di un passato mitizzato?
Leggendo, io mi sono persuaso di questo: che il libro altro non sia che una composta (e forse anche un po' commossa) elegia sulla precarietà dell’esistenza ed una meditata riflessione sul progressivo incedere di una fine cui tutto è soggetto.
Per quanto si possa essere inclini o refrattari al cambiamento, nulla dura per sempre. I Borboni, la monarchia, il casato, la terra, i palazzi, le stanze, gli arredi, i corredi, gli amori, il prestigio, gli affetti … e persino i ricordi (che da soli danno un senso a quell’ultimo capitolo): nulla sopravvive all'erosione del tempo.
Uomini, animali, cose e sentimenti: tutto passa; tutto è destinato a sgretolarsi, a perire. Non a caso la morte – o il pensiero della morte - è una presenza sempre incombente e ricorrente ad ogni pagina del romanzo, dalla prima (
Nunc et in hora mortis nostrae. Amen. ) all’’ultima riga (
Poi tutto trovò pace in un mucchietto di polvere livida ), che fanno quasi da iscrizioni sepolcrali all’intera vicenda.
Eppure, per quanto continua ed insistente, questa presenza non è mai troppo inquietante, e tanto meno disperante: il protagonista infatti - quasi fosse un innamorato - non la fugge, ma la cerca e (secondo la felice espressione di Tancredi) quasi la corteggia, in una sorta di
cupio dissolvi che non ha in sé la promessa d’una vita futura, bensì un mero desiderio di sereno annullamento e/o di ricongiungimento con un’Eternità depurata da ogni riferimento religioso.
Ma forse sto divagando troppo. Resta comunque la sensazione di una magnifica lettura, suggestiva e profonda, che trova a mio avviso il suo corrispettivo in un altro grande romanzo del ‘900 europeo,
I Buddenbrook di T. Mann, che in ultima analisi ripropone – pur attraverso la descrizione d’ambienti e ceti sociali diversi - lo stesso affascinante ed irrisolvibile dilemma: che ne sarà di noi?