Non credete ai telegiornali, ai giornali o alle testate online? Siete scettici sulle informazioni che arrivano, sul dolore che una popolazione intera sta vivendo? Allora potete (o meglio dovreste) leggere questo libro. La guerra tra Israele e Palestina, il loro decennale conflitto e il genocidio sono ciò di cui si parla incessantemente in questi giorni ma bisogna saperne sempre di più. Ogni mattina a Jenin è una testimonianza, quella della scrittrice Susan Abulhawa, nata da una famiglia palestinese in fuga dopo la Guerra dei Sei giorni e presente al massacro del campo profughi di Jenin del 2002.
Il romanzo, pubblicato nel 2006, racconta la storia di quattro generazioni di palestinesi costretti a lasciare la propria terra dopo la nascita dello stato di Israele e a vivere la condizione di esuli. La voce narrante è quella di Amal, brillante nipotina del patriarca della famiglia Abulheja. Tra amicizie, rapimenti, descrizioni atroci e immagini poetiche l'autrice racconta quanto beffarda possa essere la vita quando il desiderio di un popolo si concretizza sulla sofferenza e sulla perdita dell'altro.
«Uscivamo tutte a fatica dagli abissi dell'espropriazione e cercavamo di sopravvivere come potevamo sotto l'occupazione israeliana.»
La lettura di Ogni mattina a Jenin è stata proposta non per schierarsi ma per conoscere attraverso l'arte, per non rimanere nell'ignoranza di chi effettivamente ignora. Sembra però impossibile non provare quantomeno empatia e solidarietà nei confronti di tutti i bambini uccisi, bambini che non avranno mai la possibilità di leggere un libro come questo perché morti prima di impararlo. Ci sono tanti modi per sostenere la causa palestinese: navigare verso Gaza su navi piene di cibo e cure, scendere in piazza e fare rumore, documentarsi, capire, parlarne e ascoltare la voce di chi tutto questo lo racconta con coraggio e disperazione; Abulhawa è una di quelle voci.
«Possono portarti via la terra e tutto quello che c'è sopra, ma non potranno mai portarti via quello che sai o le cose che hai studiato.»
Abulhawa si è sempre esposta, anche contro gli Stati Uniti, paese che da adolescente l'ha accolta ma che tutt'ora supporta Israele. In una recente intervista all'associazione "ANBAMED APS per la multiculturalità" l'autrice ha affermato che i palestinesi sono un popolo indigeno che lotta per liberarsi da uno stato di apartheid basato sulla supremazia ebraica fascista ed ha spiegato sicura che "la storia ci darà ragione". In più ha esplicitato lo scopo del suo lavoro e anche di questo libro, cioè la sensibilizzazione volta a prendere una posizione perché "non esiste una via di mezzo. Chi tace è complice di genocidio".
La complessità dell'argomento può intimorire, è comprensibile, ma allora si può virare su qualcosa di più semplice e importante: la nostra umanità. La speranza di un mondo in pace non deve mai spegnersi, nonostante tutto ciò a cui assistiamo ogni giorno, e portare avanti una lotta pacifica per questo scopo non è solo giusto, è necessario.
«La riconciliazione e la pace possono cominciare solo con l'ammissione dei torti commessi.»
(articolo a cura di Sveva Serra)
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