Terminato anch’io 
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Come molti di voi hanno rilevato, trovo che il finale riscatti in qualche modo il libro: al di là dell’effetto-sorpresa, l’ho gradito, anche nel suo risvolto (inaspettatamente?) romantico.
Alla luce di quanto scoperto, anche quello che inizialmente a me era parso un difetto - la mancanza cioè di “spessore” dei personaggi - si rivela essere invece la naturale conseguenza di un racconto per certi versi “appiattito” su vicende passate, lontane nel tempo e direi ormai sepolte. O che s’apprestano ad esserlo.
Quanto al resto: a me pare che l’autore abbia tentato d’applicare alla prosa letteraria il metodo pittorico impressionista.
“Fissare l’attimo”, era sostanzialmente ciò che Monet si proponeva di imprimere sulla tela. Bussi prova quasi a fare lo stesso, fissando sulla pagina una serie di attimi, di brevi istanti, diversamente percepiti a seconda del punto di vista, che se da un lato si rivelerà essere sempre lo stesso, dall’altro continuamente muta - o dovrebbe mutare - a seconda dello scorrere del tempo, dell’età, degli umori e delle stagioni.
L’intento è riuscito? Tenderei a rispondere sì, ma solo parzialmente, e comunque dopo una riflessione a posteriori. A lettura in corso devo riconoscere invece di non essere stato troppo colpito dai giochi di luce e colore che Bussi doveva avere in mente.  
Quel che meno mi ha convinto è proprio la cornice. Leggo - da un articolo reperito in internet - che nel ciclo delle Ninfee Monet 
“inaugura la composizione a tutta tela, senza un vero e proprio punto focale da cui dipende la composizione e senza un’idea precisa di confine. La cornice non inquadra più, non è il veicolo fisico che dà fine al quadro, ma si assottiglia, perde di importanza, diventa semplice contorno. Il quadro acquisisce autonomia totale, la rappresentazione sfida la realtà, ingloba l’osservatore, si fa ambiente”.
In 
Ninfee Nere la cornice è invece da subito una presenza rilevante, ingombrante, persino asfissiante. A dire il vero, è lo stesso Autore a rilevarlo, nel momento stesso in cui – riferendosi ad una “faccenda” durata solo tredici giorni - introduce anche i termini “prigione” ed “evasione”.
Se però la suddetta “impressione” si rivela funzionale alla trama, finisce forse per nuocere allo stesso Monet, la cui ampiezza di vedute e profondità di respiro viene appunto eccessivamente limitata e soffocata. Come se l’
en plein air fosse stato messo in gabbia.
Questo, almeno, è ciò ch’io - da lettore - ho percepito. Da qui quella sensazione di artificiosità che l’Autore imputa ad una Giverny stravolta dal turismo di massa e che io, a mia volta, scorgo in pagine che, per quanto magari ispirate al più sincero impressionismo, finiscono spesso per sconfinare nel più scontato manierismo. 
Come dire: per fare un bel quadro non sempre serve usare tutta la gamma dei colori. E qui, tra nero, giallo e rosa, qualche pennellata risulta essere forse di troppo: il fatto che nessuno si sia però alla fine detto deluso della lettura depone - a mio avviso - a favore di un libro che, per quanto mi riguarda, è riuscito ad accendere un interesse più per Aragon - che non conoscevo affatto - che per Monet.  Peccato solo che di 
Aurelien non abbia trovato un'edizione in italiano  
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