VFolgore72 ha scritto: 
pierbusa ha scritto: Mi piacerebbe però che avesse meno lavoro, che finisse il mercimonio che sta dietro questi viaggi della speranza che fanno arricchire gli scafisti e i loro amici.
Quoto all’infinito il post di Pierbusa.
Aggiungo inoltre le mie fortissime perplessità verso le ONG. È dato sapere chi li mantiene? Davvero non hanno secondi fini?
Magari lo sapessimo! C'è ancora parecchia "nebbia" da diradare su quell'argomento. Personalmente credo che non siano tutte uguali. Come in tutte le cose, difficile che sia tutto oro quello che luccica. Però nemmeno possiamo fare di tutta l'erba un fascio. Almeno fino a prova contraria.
Nel frattempo, da un paio di giorni ho terminato la lettura del libro. Complice l'influenza, questa volta sono stato un fulmine 
 
 
  Di solito per leggere 200 pagine impiego un mese... 

  ma è capitato il libro giusto al momento giusto e ne ho approfittato! 
 
Primo spunto di riflessione sul quale vorrei confrontarmi con voi se vi va.
E' vero ed è spesso istintivo il fatto che più lontano avviene la tragedia, meno ci tocca. Soprattutto se la distanza è culturale, ancor più che geografica. Ma è anche vero che, spesso, questa lontananza si accorcia quando si tocca con mano la disperazione dell'altro, che non ha bisogno di traduzioni.
Da sempre ho avuto questa sensazione. Vale in generale: se non capita a noi, se non tocca la nostra sfera di amicizie, parentele, ecc., se non abbiamo a che fare direttamente con un evento, questo probabilmente ci toccherà meno. Inutile negarlo. Si può essere più o meno empatici ma se si dovesse razionalmente soffrire per ogni cosa che capita a qualcuno nel mondo ogni minuto, probabilmente non riusciremmo mai a vivere la nostra vita serenamente. Quindi inconsciamente siamo portati a guardare ciascuno il proprio orticello.
Nel caso della Cattaneo, l'"orticello lavorativo" la porta a diretto contatto con una realtà che la colpisce profondamente e nasce la storia che abbiamo letto.
Torniamo però alla sua frase perché in realtà è la tematica della "distanza culturale" rapportata a quanto ci tocca una tragedia che mi ha fatto riflettere e non so se mi trova pienamente d'accordo con lei. Ho provato a rifletterci e vorrei sapere cosa ne pensate voi.
Vi faccio un esempio per motivare le mie perplessità.
Come sapete, il Giappone è una nazione molto soggetta ai terremoti.
Terremoto di Tōhoku (11 marzo 2011), quello che poi darà il via allo Tsunami che provocherà il disastro nucleare di Fukushima Dai-ichi.
Ricordo che venni a sapere di quell'evento da un amico (che sarebbe dovuto partire per il Giappone in quei giorni per festeggiare la sua laurea) prima ancora che dai media.
Ricordo che mi dispiacque per lui ma soprattutto per il disastro in generale, di cui seguii i risvolti in televisione ma, probabilmente complice la lontananza del Giappone dall'Italia, lo vissi diversamente rispetto ai terremoti di qualche anno dopo in Italia...
2016 - 2017 Terremoti del centro Italia. Abbiamo tutti ancora ben evidenti davanti agli occhi i danni e le morti causate da quella serie di terremoti. Eventi disastrosi che ci hanno sconvolto e dei quali ancora oggi l'Italia porta i segni. Furono degli eventi che mi colpirono profondamente.
Fino a qui, due episodi che mi hanno toccato in maniera diversa: quello italiano di più di quello giapponese, probabilmente davvero per la questione della vicinanza geografica.
Ad agosto 2018 ho visitato per la prima volta il Giappone, scoprendo la loro fantastica cultura, imparando a conoscere le loro usanze ed il loro modo di vivere in società. Devo ammettere che sono rimasto molto colpito e affascinato da alcuni aspetti della loro storia e della loro cultura. Insomma, i giapponesi mi hanno stupito e ho portato con me davvero un buon ricordo di loro.
Tre giorni dopo il nostro ritorno in Italia, nuovamente terremoto in Giappone (il secondo nel 2018, il primo avvenne a giugno). Aeroporto di Osaka (dal quale eravamo partiti tre giorni prima) completamente sommerso dall'acqua. Città distrutte e nuovamente innumerevoli vittime e danni inimmaginabili.
In quel caso però devo ammettere di aver provato sensazioni "diverse". Amplificate. E' come se la scoperta della cultura giapponese mediante il viaggio avesse accorciato la distanza tra me e il Giappone, facendomi provare un'angoscia diversa rispetto a quella che provai nel 2011 guardando immagini analoghe in televisione.
Anzi, dopo il mio ritorno dal Giappone, anche il disastro nucleare di Fukushima (approfondito tramite un documentario visto per caso qualche mese dopo il mio ritorno) ha generato in me sensazioni diverse rispetto a quando avvenne. Mi sono sentito maggiormente vicino a loro.
Concludo con lo spunto di riflessione su cui ragionare: siete d'accordo con quanto scrive l'autrice? Secondo voi una tragedia può colpirci meno se affligge una popolazione culturalmente diversa dalla nostra?
Se sì, perché secondo voi? Viaggiare e quindi conoscere nuove culture, può effettivamente ridurre/annullare le distanze tra i popoli in termini di sensibilità ad argomenti (non per forza disastri) che riguardano paesi geograficamente lontani dal nostro? Grazie!