Conclusa la lettura, d'istinto, spinto dai suggerimenti di Pier, mi era parso sensato per un attimo restituirlo in volo ad altri luoghi ma sorretto dal lume della ragione ho desistito, per amore incondizionato al manufatto, al simbolo in sé, cercando in qualche modo un approdo logico, una ragione plausibile che potesse riordinare quella scrittura che barbaramente ha evocato l'atto e restituire un senso a quel lume ritrovato.
Allora mi sono chiesto: cosa vi è da aggiungere altro?
Di certo le critiche a questo libro sono state numerose. Sul lato della narrazione vi è quasi un coro unanime nel ritenerla imperfetta mentre sul contenuto le opinioni divergono, come del resto è comprensibile.
Anch'io come molti di voi non ne apprezzo la scrittura perché la trovo imprecisa, non costruita ad arte e piena di difetti, però visto che mi ha trascinato con forza in questa immagine apocalittica e volendo dare un senso allo sforzo speso mi chiedo a questo punto se la particolare narrazione proposta sia più una scelta mirata piuttosto che un'opera mal riuscita.
Ecco fin dove mi spingo, cercare a tutti i costi un appiglio per autoconvincermi del fatto che l'autore qui non ha colpe, che potrebbero queste invece attribuirsi, perché no, al suo traduttore.
Quindi, alla luce di ciò ritengo utile optare per la prima ipotesi e dargli ancora credito.
Allora, al di là della sintassi non coerente, di uno sviluppo poco chiaro, il mantenere ferma una sequenza descrittiva dei fatti disordinata, come una sorta di ossessione che culmina nella brutalità più efferata e il richiamo costante alla struttura del grattacielo come leva, fattore scatenante, mi induce a pensare più a una sorta di denuncia che l'autore fa, sebbene non apertamente, su un uso eccessivo della tecnica, evidente nella costruzione del grattacielo, la quale se fortemente estremizzata e guidata impropriamente, può condurre a disfunzioni sociali assai gravi, più che al benessere come portato del progresso, in grado di sprigionare la parte peggiore di ognuno di noi, ricondurci a quello stato primordiale, istintivo più che razionale, e proteso alla mera sopravvivenza in forme crude e tribali.
Ma è solo una parentesi, una crisi che viene prima o poi superata, non certamente uno stato permanente che l'autore per quasi tutta la narrazione vorrebbe farci credere, per poi confutarlo con le poche righe spese sul finale.
    
A me pare tutto ciò incomprensibile, forse perché mi sforzo di non immaginare un degrado umano di tale misura. Ma ipotizzando per un attimo questo stato regressivo temporaneo, questa sorta di trans collettivo, non credo regga molto così come è stato sviluppato.
Ballard qui vorrebbe farmi credere, almeno questo è ciò che ho inteso, che a tale brutalità è destinato l'uomo a vivere perennemente e che non ci sia scampo di affrancarsi da questa condizione.
Non credo proprio a questa prospettiva, nonostante io abbia respirato attorno a me la malvagità umana in varie forme come molti di voi del resto.
È come dire che le conquiste ottenute per emanciparci dalla condizione primitiva: la bellezza del pensiero critico, la scienza, i sentimenti e le virtù più alti, sarebbero solo palliativi, momenti di distrazione da una condizione animale nella quale profondamente siamo incatenati.
Io credo invece che sia la parte nobile conquistata con la ragione, il punto più alto che l'uomo abbia mai raggiunto, capace di esorcizzare il male che ci affligge e confinarlo nelle remote cavità della psiche. Allora ispirarci all'armonia più che alle divisioni, alla socialità più che all'egoismo, alla tolleranza più che alla brutalità può garantire un argine potente contro il suo continuo soffiare.  
Perdonate lo sfogo e la digressione.