Dopo tanti buoni propositi e pochi concreti tentativi, mi sono recentemente riavvicinato alla lettura con una certa assiduità e con rinnovato piacere/interesse, spero stavolta duraturi. In ogni caso, avendo ora nuovamente qualcosa da raccontare, torno sul forum a condividere le mie impressioni, che per maggior comodità riunirò qui, in un unico thread, anziché confonderle in varie discussioni.
Dunque, a gennaio ho letto (addirittura!) due libri. Del primo mi ha dapprima catturato il titolo: Gioventù senza Dio, di O. von Horvath. Poi è venuto il resto: stimolante, avvincente e direi persino sconvolgente nella sua insospettata “attualità”. La gioventù cui si fa riferimento è quella hitleriana: violenta, sprezzante, razzista e con occhi … “da pesce”, freddi e inespressivi. Ed è con questa gioventù massificata, priva di profondità, di coscienza e d’umanità (senza Dio, per l’appunto) che un insegnante di liceo - uno dei pochi esseri ancora immune alla stordente propaganda nazionalsocialista - si ritrova suo malgrado a misurarsi, a tentare di comunicare. Con quali sterili risultati è facile prevedere, anche se un barlume di speranza il finale lo lascia.
Pubblicato nel 1937, il romanzo (150 pagine circa, piuttosto scorrevoli, a tratti anche divertenti) fu presto inserito nella "lista della letteratura dannosa e indesiderabile". Più o meno la stessa sorte - e non solo in Germania - toccata a I dolori del giovane Werther di J.W. Goethe, di cui per un certo periodo venne proibita la vendita o che fu sottoposto a pesanti censure.
I motivi, ovviamente, non c’entrano con quelli di Gioventù senza Dio. Il fatto è che il clamoroso successo dell’opera di Goethe ispirò una vera e propria moda: “i giovani indossavano completi simili a quello di Werther: giacca blu, panciotto giallo e stivali alti; le donne si profumavano con l’Eau de Werther e nelle case comparvero cianfrusaglie o figure di porcellana con i ritratti dei due giovani innamorati, Werther e Lotte”. Ma l’effetto più dirompente fu l’ondata di suicidi che seguì la pubblicazione e la diffusione del romanzo, che per questo motivo acquistò presto la fama di “maledetto”. Tanto che ancor oggi, in sociologia, si parla di “effetto Werther” per definire comportamenti suicidi messi in atto su imitazione di condotte apprese da libri, televisione, cinema e mass media in genere.
Avendo più volte letto e riletto il libro (mi pare che questa sia la terza, se non la quarta), si potrebbe forse presumere che la suddetta “moda” e/o "mania" abbia per certi versi affascinato anche me. Eppure confesso che sebbene per un certo periodo l'abbia considerato nel novero dei miei preferiti, non l’ho mai veramente e totalmente amato. Perché è difficile, al giorno d’oggi, identificarsi in un personaggio così patetico ed eccessivo da rasentare pericolosamente il ridicolo. Come i protagonisti di Cime tempestose (tanto per azzardare un paragone), Werther non conosce infatti mezze misure: per un nonnulla o è felice, o infelice; si esalta, o si deprime; vuol vivere, o morire. Non c'è spazio per la prosa: tutto in lui è poesia. Se ossianica o idilliaca, dipende ovviamente dal momento.
Insomma così è troppo, anche per me: l'alba non può essere sempre radiosa e non ci si può incupire ad ogni tramonto. Ma soprattutto, non riesco a conciliare l'anima dark con quel panciotto giallo limone. E sarà forse per rimettere un po’ in equilibrio le varie tonalità di colore e arginare tanta profusione di sentimenti che a febbraio ho cominciato a leggere Gli indifferenti, di A. Moravia. Per ora, mi piace ...