Lettura terminata
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La parte settima l’ho trovata progressivamente assai coinvolgente, a partire dalle pagine relative al parto di Kitty, già ricordate da Elis.
Ho pensato che le suddette pagine, unitamente ai bellissimi capitoli riguardanti Anna, potessero dare un significato anche alla parte precedente, che di primo acchito m’era parsa quasi superflua: come se Tolstoj, deliberatamente, avesse voluto a lungo lasciarci galleggiare in superficie, laddove gli esseri umani sono soliti agitarsi, per poi improvvisamente immergerci negli abissi dei pensieri più reconditi e delle più vere emozioni.
La parte ottava, poi, c’illumina sul significato complessivo di un’opera che – come dice Nautilus – “un messaggio deve volercelo mandare Tolstoj se ha deciso di concludere il suo romanzo con Levin e non con Anna”.
Anna Karenina è incentrato su due storie d’amore contrapposte: e su questo siamo tutti d’accordo. Ma non credo possa essere definito un romanzo d’amore, o sull’amore, perché in realtà contiene una più profonda riflessione sulla vita e sulla morte, espressa da Levin, il quale giunge alla conclusione che l’amore vivifica solo laddove è sostenuto da una fede religiosa; altrimenti muore, o addirittura uccide.
Non è questione d’amore carnale o d’amore spirituale; d’amore passionale o di un più profondo e duraturo affetto; di relazioni extraconiugali o di matrimoni celebrati: perché infatti persino Levin – che ha sposato la donna che ama e che da lei è riamato – non è immune da tentazioni suicide, anche (e soprattutto) nel momento in cui tutti i suoi sogni parrebbero essersi realizzati.
La verità è che l’amore (in qualunque forma possa essere declinato), ridotto alla sola esperienza terrena, da solo non basta ad allontanare il pensiero (e la paura) di una morte sempre incombente, mentre concepito come parte di un disegno più grande può regalare un senso alla nostra esistenza, offrendo una speranza di vita anche dopo la morte.
In questo senso, davvero bella e toccante ho trovato la scena conclusiva, che vede Levin intento a scrutare un cielo scuro, ma punteggiato di stelle, che improvvisamente spariscono dietro al lampo accecante di un temporale che rumoreggia all’orizzonte. Per quanto minaccioso, e presago forse di morte e distruzione, il temporale non riuscirà a scalfire in Levin l’intima certezza d’una vita futura, simboleggiata da una doppia e rassicurante immagine: il dolce volto di Kitty, qui sulla terra; il ricomparire delle stelle, lassù in cielo.
Pur non raggiungendo forse le vette poetiche a cui - a tratti -
Guerra e Pace s’innalza, questo romanzo a me è molto piaciuto: nel complesso, anche più dell'altro. Ed è vero che aver avuto la possibilità di confrontarsi con voi m'è servito a ricavarne un’impressione assai diversa da quella di una precedente (e questo punto devo anche aggiungere: superficiale, o forse solamente acerba) lettura.
E proprio a riguardo dei giudizi personali che sono stati espressi, e di cui già abbiamo avuto modo di discutere, mi pare importante ricordare ciò che forse a molti alla fine può essere sfuggito, ovvero l’epigrafe posta a inizio del libro, che riporta una frase biblica: «
Mihi vindicta: ego retribuam». Un chiaro invito ad amare e non giudicare.
Il che ovviamente non significa che non sia possibile avere un’opinione, o che non la si possa esprimere, ma solamente che formulare giudizi definitivi - di condanna o assoluzione - per questo o quel personaggio può in questo caso assai facilmente indurci a quell’errore da cui lo stesso Tolstoj avrebbe voluto distoglierci e a farci al contempo dimenticare la cosa più importante: ovvero l'amore.