Riporto la sorpresa di ieri..
Notre Dame de Paris, p. 39
"Povero Gringoire! il fracasso di tutti i doppi petardi della festa di San Giovanni, la scarica di venti archibugi a uncino, la detonazione della famosa serpentina della Torre di Billy che, in occasione dell’assedio di Parigi, domenica 29 settembre 1465, uccise sette borgognoni in un colpo, l’esplosione di tutta la polvere da sparo immagazzinata alla Porta del Tempio, gli avrebbero straziato le orecchie meno crudelmente, in quel frangente solenne e drammatico, di quelle poche parole cadute dalle labbra di un usciere: Sua eminenza monsignore il cardinale di Borbone. Non che Pierre Gringoire temesse monsignore il cardinale o lo disprezzasse. Non aveva né quella debolezza né quell’insolenza. Da autentico eclettico, come si direbbe oggi, Gringoire era uno di quegli spiriti elevati e saldi, moderati e calmi, che sanno sempre stare in mezzo a ogni cosa e traboccano ragione e filosofia liberale, pur prendendo atto dei cardinali. Stirpe preziosa e ininterrotta di filosofi ai quali la saggezza, come una novella Arianna, sembra aver consegnato un gomitolo di filo che costoro vanno srotolando dal cominciamento del mondo attraverso il labirinto delle vicende umane. Non c’era dunque né odio per il cardinale, né spregio per la sua presenza, nella sgradevole impressione che essa suscitò in Pierre Gringoire. Tutto il contrario; il nostro poeta aveva troppo buon senso e un pastrano troppo logoro per non attribuire un particolare valore al fatto che le innumerevoli allusioni del suo prologo, e in particolare la glorificazione del delfino figlio del leone di Francia, fossero colte da un orecchio eminentissimo. Ma non è l’interesse a dominare la nobile natura dei poeti. Supponendo che l’entità del poeta sia rappresentata dal numero dieci, è certo che un chimico, analizzandola, la troverebbe composta di una parte di interesse contro nove parti d’amor proprio. Ora, nel momento in cui la porta si era aperta per il cardinale, le nove parti d’amor proprio di Gringoire, enfiate e tumefatte dall’afflato dell’ammirazione popolare, erano in uno stato di ipertrofia prodigiosa, sotto cui spariva come soffocata quell’impercettibile molecola di interesse che distinguevamo poc’anzi nella costituzione dei poeti; ingrediente del resto prezioso, zavorra di realtà e d’umanità senza la quale non toccherebbero terra. Gringoire godeva a sentire, vedere, toccare per così dire con mano un’assemblea intera, di mascalzoni è vero, ma che importa, stupefatta, impietrita, e come asfissiata dalle incommensurabili tirate che spuntavano a ogni istante da ogni parte del suo epitalamio. L’ingresso di sua eminenza sconvolse l’uditorio. Tutte le teste si girarono verso il palco. E fu un coro da non capire più nulla. Il cardinale! Il cardinale! ripeterono tutte le bocche. Lo sfortunato prologo rimase di sasso una seconda volta. Il cardinale si fermò un momento sulla soglia del palco. Mentre lasciava vagare uno sguardo abbastanza indifferente sull’uditorio, il tumulto raddoppiava. Tutti volevano vederlo meglio. Era una gara a mettere la testa sulle spalle del vicino. In effetti era un importante personaggio e il suo spettacolo valeva ben qualsiasi altra commedia. Carlo, cardinale di Borbone, arcivescovo e conte di Lione..."
Poeta e filosofo squattrinato e incompreso. Riesce a farsi commissionare la scrittura di un mistero teatrale in onore della principessa Margherita di Fiandra, da mettere in scena in occasione dell'arrivo nella città parigina degli ambasciatori fiamminghi. Gringoire spera nel successo della commedia al fine di poter ripagare, con il ricavato, i numerosi debiti contratti. A seguito del fallimento del suo mistero teatrale, e subissato dal peso dei debiti, inizia a girovagare per le strade di Parigi fino a ritrovarsi, per errore, nella Corte dei miracoli, dominio degli argot. Qui, condannato a morte per aver violato i confini della comunità gitana, viene salvato da una giovane zingara, la Esmeralda, che lo sposa pur non amandolo, sebbene il matrimonio non verrà mai consumato.
“Interrogo i libri e mi rispondono. E parlano e cantano per me. Alcuni mi portano il riso sulle labbra o la
consolazione nel cuore. Altri mi insegnano a conoscere me stesso.”
(Francesco Petrarca)