Mi sono imbattuto, casualmente (casualità dovuta al mio lavoro) in un libricino piccino piccino e pure spillato di Adolf Hoffmeister "Il gioco della sera" (conversazione con James Joyce) edito nella collana "i sassi" dell'editore nottetempo.
In questa conversazione si confrontano i due letterati sull'opera di Joyce. Ne riporto un piccolo brano:
H: Mi può dire quali sono le connessioni e quali le differenze tra Ulisse e Work in Progress?
J: Non credo che ci siano differenze. A cominciare da Gente di Dublino tutto il mio lavoro segue una linea retta di sviluppo. Una linea quasi indivisibile. Solo il livello di espressività e la complessità tecnica sono cambiati, magari anche in modo leggermente drammatico. Certo avevo vent’anni quando scrissi Gente di Dublino e fra Ulisse e Work in Progress passano sei anni di penosissimo lavoro. Ho finito Ulisse nel 1921 e il primo frammento di Work in Progress è stato pubblicato su Transition sei anni dopo. La differenza sta solo nello sviluppo. Tutto il mio lavoro è sempre in progress.
H: So che i lettori esclamano spesso, come Mr. H.G.Wells: “è un’opera grandiosa, ma non ci capiamo niente”.
J: Non sono d’accordo che la letteratura difficile sia necessariamente inaccessibile. Qualsiasi lettore intelligente può leggere e capire, se torna al testo piú e piú volte. S’imbarca in un’avventura con le parole. In realtà, Work in Progress è piú appagante di altri libri perché offro al lettore l’opportunità di completare quello che legge con la sua immaginazione. Alcuni si interesseranno all’origine delle parole, ai giochi tecnici, agli esperimenti filologici in ogni verso. Ogni parola possiede la magia di una cosa vivente. Ogni cosa vivente può assumere una forma.
Nel primo racconto di Gente di Dublino ho scritto che la parola “paralisi” mi riempiva di terrore e paura, come se indicasse qualcosa di cattivo e peccaminoso. Mi piaceva questa parola e me la sussurravo la notte davanti a una finestra aperta. Mi hanno fatto osservare che alcune parole sono state create sotto l’influenza o l’impressione di un mondo che non ho mai visto. Forse la mia debole vista è responsabile di questo, per cui il mio pensiero fugge dalle parole nelle immagini, e poi è il risultato della mia educazione cattolica e delle mie origini irlandesi.
Quando parla di "Work in progress" parla in realtà di quello che poi verrà chiamato in modo definitivo "Finnegans Wake".
Appuntiamoci anche la stroncatura che Virginia Woolf fece di questo libro:
"
Ho terminato l'Ulisse e penso che l'autore abbia fatto cilecca…Il libro è prolisso. È salmastro. È pretenzioso. È rozzo, non solo in senso corrente, ma anche in senso letterario. Uno scrittore di vaglia, voglio dire, rispetta troppo lo scrivere per fare il furbo."
Come ne usciamo?
Cerchiamo almeno di comprendere
cosa stiamo leggendo, non
quello che stiamo leggendo. Non si tratta solo di un libro, un romanzo, un racconto, una storia ma di un
compendio di libri, romanzi, racconti e storie!!! Tutte vissute in una sola giornata, il 16 Giugno 1924, una specie di
big bang letterario.
Joyce concentra
una vita in una giornata e quella
giornata diventa una vita. Dunque cosa percepiamo di questa lettura? Possiamo leggerlo solo intuendo qualcosa e capendone ancor meno?
Rispondo con una riflessione che Max, nostro amico di Forum, mi ha portato a fare. Quando ascoltiamo le frequenze a noi percepibili non sono tutte le frequenze sonore percepibili in natura, quando guardiamo quello che i nostri occhi filtrano non è tutto quello che in natura esiste come radiazione luminosa. I nostri organi sensoriali funzianano come dei filtri.
Quando leggiamo l'Ulisse vale la stessa regola non è importante
percepire (alias
capire) tutto ma quel che percepiamo basta a farci una idea del libro così come quello che vediamo con i nostri occhi basta a farci una idea del panormama che stiamo osservando.
Quindi leggerlo, magari rileggerlo (come ci suggerisce lo stesso Joyce) e quello che rimane è proprio l'immagine che Joyce voleva darci del suo libro.