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Come adoro Dumas... e non posso che concordare con lui (parte religiosa a parte).
Avevo anche un amica che faceva quel lavoro... non sono mai riuscita a trovarlo un lavoro "sporco"... cioè... oddio, non che lo avrei fatto ma credo che non sia una cosa terribile se una donna decide di farlo volontariamente.... o meglio non mi metto certo a puntare i ditini giudici...
L'unica cosa è che vorrei davvero che invece di continuare con l'utopica idea di farlo scomparire rendendolo illegale che invece non solo lo legalizzassero ma che tutelino che ci lavora... diciamo che preferirei che a fare il "pappone" fosse lo stato. Con regole igeniche e controlli, dimodoche siano solo persone che scelgono quella vita a farlo, e non donne obbligate. Inoltre tutelarle da uomini che credono che i lividi siano compresi nel prezzo, e soprattutto dalla mafia della prostituzione... insomma non riesco a vedere i lati negativi nella sua legalizzazione. Infondo abbiamo legalizzato l'alcool (considerata una droga pesante) e il gioco d'azzardo, quindi non vedo il motivo di negare la prostituzione, che per di più è sempre esistito e sempre esisterà, è la natura umana.
voi la pensate come me o pensate che un giorno potrebbe essere debellata?
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Penso sia molto (troppo) riduttivo condurre la discussione su questo libro sull'argomento prostituzione.
I classici della lettatura vanno affrontati calandoli nel loro contesto storico ed una volta inseriti in quella cornice commentarli come fossero un dipinto, una statua, una qualsiasi opera d'arte dell'epoca.
E sulla descrizione dei sentimenti, sulle sofferenze dei protagonisti principali, su come all'epoca erano viste e trattate le "dame di compagnia", sull'ipocrisia che circondava queste donne, che mi permetto (non invitato) di invitare al confronto.
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I classici della lettatura vanno affrontati calandoli nel loro contesto storico ed una volta inseriti in quella cornice commentarli come fossero un dipinto, una statua, una qualsiasi opera d'arte dell'epoca.
...su come all'epoca erano viste e trattate le "dame di compagnia", sull'ipocrisia che circondava queste donne, che mi permetto (non invitato) di invitare al confronto.
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Tu hai ragionissima pierbusa! Ma come scrive Calvino, un classico è tale perché non finisce mai di dire quello che ha da dire, e in questo senso l'osservazione di Elle mi pare pertinente. Dopotutto la riflessione sulla prostituzione non come una macchia ma come una ferita della persona è talmente evidente e talmente ripetuta nella Signora delle Camelie che è impossibile non inciamparci in qualche modo...I classici della lettatura vanno affrontati calandoli nel loro contesto storico ed una volta inseriti in quella cornice commentarli come fossero un dipinto, una statua, una qualsiasi opera d'arte dell'epoca.
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Correva l’anno 1884, e la Francia viveva gli splendori della Belle Époque, quando la grande Sarah Bernhardt si vide un giorno recapitare un regalo che la commosse profondamente. Era un biglietto ormai un po’ malandato che diceva: “Mia cara Maria, non sono abbastanza ricco per amarvi come vorrei, né abbastanza povero per esser amato come vorreste voi. Dimentichiamo dunque tutti e due, voi un nome che vi deve essere indifferente, io una felicità che mi diviene impossibile”.
Questa lettera freddamente crudele, che conoscevano benissimo i lettori di un popolarissimo successo qual fu La signora delle camelie e gli spettatori delle infinite e fortunatissime repliche della sua versione teatrale, non portava la firma di Armand Duval, l’innamorato di Marguerite Gautier, né era indirizzata a Marguerite, come nel libro e nella pièce. Ma era proprio il biglietto che il men che ventenne Alexandre Dumas, bel giovinotto, bon vivant e figlio naturale del celeberrimo Dumas senior, dopo aver incontrato al Théâtre des Variétés nel 1846 la bellissima e giovanissima Alphonsine Marie Duplessis, dopo averla amata per neanche un anno, le aveva mandato per siglare l’impossibilità di continuare nella loro storia d’amore. “Questa lettera”, che era andata perduta, ed era stata recuperata da Dumas a un’asta di autografi, “è la sola prova tangibile che esista di questa storia. Penso che ora vi appartenga di diritto, poiché siete voi che avete restituito giovinezza e vita al morto passato”, scriveva Dumas fils alla divina Sarah, che aveva dato vita sulla scena a una commovente ed emozionante Marguerite, e che avrebbe continuato a portare in giro il suo personaggio per il mondo quando aveva ormai sessant’anni, il triplo del personaggio che incarnava.
All’origine di una delle grandi figure mitiche della letteratura moderna – “mitica” nel senso in cui è mitico Don Giovanni, nota quindi anche a chi non ha mai letto il romanzo di Dumas fils, carica di simboli e di risonanze, capace di passare di nome in nome, ora Marguerite, ora Violetta, perfino Camille, nella bizzarra distorsione inventata dal cinema americano, senza mai perdere la sua identità emblematica di protagonista di una storia d’amore, costrizioni sociali e morte – c’era dunque un personaggio reale, l’incarnazione vivente della miseria e degli splendori delle cortigiane: Marie Duplessis, figlia di una portiera parigina, morta giovanissima, in solitudine, il 3 febbraio del 1847, al numero 11 del boulevard de la Madeleine, dopo aver sposato un anno prima, a Londra, il conte de Perregaux – evidentemente qualcuno abbastanza ricco per amarla come voleva ma non abbastanza innamorato da starle vicino nel momento della morte.
Il mito, certo, come tutti i miti, ha subito ritocchi e metamorfosi, sostanziali e meno. Marguerite (per non dire Marie), benché celebre, non ha conquistato la notorietà planetaria che la traviata Violetta ha conquistato attraverso la musica verdiana. La sua vicenda d’amore e morte ha sfumature diverse da quelle del melodramma verdiano. Il suo amante Armand Duval (l’alter ego di Dumas fils), nella versione musicale opportunamente ribattezzato Alfredo – come ha avuto occasione di notare Gian Carlo Roscioni: «Ve l’immaginate Violetta cantare: “Amami Armando, amami com’io t’amo?”» –, a seconda dei casi letterari e musicali, durante la malattia e la morte le sarà più o meno vicino, con relativa accentuazione del risvolto “sociologico” o del risvolto “romantico” della vicenda (quanto alla realtà, Alexandre Dumas fils era in vacanza in Spagna con il vecchio Dumas père quando la povera Marie Duplessis moriva). I personaggi di contorno, dal romanzo al dramma al melodramma, si riducono o spariscono. La cortigiana ventenne è stata impersonata con entusiasmo da Sarah Bernhardt (che, per una curiosa coincidenza, era nata un mese dopo che Dumas aveva incontrato Marie Duplessis) così come da Eleonora Duse, ma è stata rifiutata da Adelaide Ristori, che trovava la parte troppo osée e moralmente riprovevole. I brindisi che si intonavano in casa di Marguerite sono diventati, attraverso la musica sublime di Verdi, i valzer preferiti delle sagre paesane. E il romanzo della sua passione e morte ha preso intonazioni diverse: da piccola storia di quotidiano egoismo a romanzo di denuncia a melodramma amoroso. Ma anche nelle metamorfosi, resistono fortissimi il personaggio e il suo mito: Marguerite, ovvero amore, consunzione e morte.
Quello che si è perso, nella cristallizzazione del mito e nel progressivo allontanarsi dall’originale – fino alle riletture in chiave moderna, come il recente “pastiche” di Luciano De Crescenzo – è il senso “merceologico” del romanzo, che lo rende al tempo stesso antico e paradossalmente moderno.
Nel rileggere oggi La signora delle camelie nella traduzione di Luisa Collodi, dopo tanti anni da una prima lettura adolescenziale, ho cominciato quasi per gioco a segnare in margine al testo il simbolo del dollaro ogni volta che nel romanzo si parla di denaro, di scambi, di dare ed avere. Lo so, avrei più filologicamente dovuto mettere il segno dei luigi d’oro (ma come erano fatti?). In ogni caso, le bozze che andavo leggendo hanno finito per essere irte di $. Assai più che un testo su amore e morte, come le sovrapposizioni successive e l’inconsapevole filtro della nostra cultura novecentesca l’hanno fatto diventare, La signora delle camelie si rivela un romanzo sul prezzo della donna: non solo quello della mantenuta Marguerite Gautier, intendiamoci. Anche una moglie, secondo le regole della borghesia francese di mezzo Ottocento, avrebbe avuto dei costi non inferiori, e Dumas fils, moralista nato, non ha mancato di annotarlo. Ma di una moglie sarebbe stato più difficile disfarsi (narrativamente) con una bella malattia e una morte. E lo scambio di denaro con una donna, unidirezionale o bidirezionale che fosse, purché sancito ipocritamente dall’istituzione matrimoniale, non avrebbe destato scandalo alcuno.
Non c’è molto da attendere. Se già fin dalla quarta riga Alexandre Dumas – che scrive il suo romanzo a ventitré anni – sostiene che ha voluto raccontare una storia vera perché non ha ancora «l’età in cui si inventa» (una affermazione di comodo che da Mary Shelley a Orson Welles alcune travolgenti invenzioni giovanili si incaricano di smentire), alla diciassettesima riga compare per la prima volta la parola «vendere». Alla ventitreesima la parola «comprare». E dopo una pagina o poco più, in una fulminea sintesi del senso profondo del romanzo, si legge che, morti «i misteri del luogo» «insieme alla dea», le virtuose signore che affollano l’appartamento di Marguerite Gautier per l’asta dei suoi beni voluta dai suoi creditori «sorpresero soltanto quello che veniva venduto dopo il decesso, ma nulla di quello che si vendeva quando l’inquilina era viva».
Ecco fatto ed ecco detto. Marguerite è, per dirla senza peli sulla lingua, una prostituta, un oggetto in vendita tra i tanti. O per dirla più elegantemente è una mantenuta (ma che prigionia sono le parole: non è mantenuta anche la tradizionale moglie borghese?). Il suo corpo – e nel caso di Marguerite anche di più, il suo spirito, la sua intelligenza, il suo buon umore, tutte le qualità che nel suo intento didascalico le attribuisce Dumas – viene venduto contro il denaro. Che eserciti in un bell’appartamento squisitamente arredato di rue d’Antin anziché sul marciapiede, testimonia delle sue qualità personali di raffinatezza e di gusto, fa di lei un oggetto prezioso, ma non cambia il giudizio morale dell’epoca, anzi, per dirla con Alexandre Dumas, che parla in prima persona all’inizio del libro, con «la morale del secolo». Cambia solo il suo valore di mercato. La mantenuta, oggetto di piacere di chi ha soldi, e tanti, è un simbolo di status, perché esprime la disponibilità economica del protettore. Ed è una disgrazia per chi soldi non ne ha e si innamora di lei, come Armand Duval, e non sta a un complesso gioco di scambi più o meno simbolici di denaro ed altre merci da sempre pregiate, come la passione – vera o simulata –, il sesso, la bellezza.
L’antologia casuale dei riferimenti al denaro che costellano il romanzo sarebbe troppo fitta. Ma a partire dalla scena terrificante in cui Marguerite moribonda sente nelle stanze di quello che è stato il suo nido d’amore e di piacere i passi dei creditori che soppesano con lo sguardo ogni oggetto, fino alle questioni relative alla sua tomba (che è stata sistemata in un’area di sepolture temporanee, e solo il riscoperto amore postumo di Armand collocherà a caro prezzo in una zona di sepolture perenni), la presenza del denaro segna ogni pagina, letteralmente o metaforicamente. «Quando confronto ciò che mi dà con ciò che mi dice trovo che gli faccio pagare a buon prezzo le sue visite», dice Marguerite, la più spregiudicata e la più libera in materia di tutti i personaggi del romanzo, a proposito del povero conte de N… che la perseguita con una corte sgradita. Ad Armand, quando accampa diritti di esclusività che lei non sa come concedergli, propone provocatoriamente: «Fa’ come gli altri, pagami e non ne parliamo più». «Gli uomini che comprano l’amore esaminano la merce prima di comprarla», afferma ancora, parlando del suo corpo devastato dalla malattia e registrando lucidamente lo stato di abbandono in cui i suoi ammiratori ormai la lasciano. E «un miliardario ti prepara il letto», scherza con amarezza quando si sta preparando a vivere con Armand per qualche mese nella pace di Bougival, in un idillio finanziato dall’inconsapevole generosità del vecchio duca che la protegge per tenerla lontana dalla sua professione. Non è solo Marguerite a parlare e pensare di denaro, anzi. Solo che Marguerite lo fa meglio, autolesionisticamente analizzando con una sorta di masochismo psicologico la propria condizione e le condizioni a cui è possibile il suo amore con Armand, che descrive con mirabile freddezza e lucidità (alle pp. 136-138). Ci manca poco, tanto per restare a problemi proprietari, che affermi «io sono mia». Certo afferma il suo diritto a disporre di quello che possiede per pagare il suo amore per Armand ed è conscia del “cessato reddito” che le sue pretese di fedeltà ed esclusività impongono. L’amore è qualcosa che Marguerite pensa si debba “guadagnare” alla pari, insieme, fuori dalle leggi del denaro, in una scissione, tanto difficile quanto moderna, tra corpo e sentimento.
Non sono stati però certo questi aspetti del romanzo a dargli la popolarità e il successo che ne hanno fatto un best-seller nella Francia ottocentesca, contrastato peraltro dal sopracciglioso disprezzo dei critici e degli intellettuali (con qualche eccezione, non a caso di sesso femminile, come George Sand). Nell’atmosfera ancora romantica della metà dell’Ottocento (La signora delle camelie uscì in pieno 1848) irrompeva come un altro manifesto – popolare, sentimentale, piccante – di realismo, garantito dall’abile struttura a cannocchiale dei flash back inventati dal narratore Dumas (si parte dal presente in prima persona per arrivare al passato e poi di nuovo al presente, attraverso la lunga cronaca che fa all’autore Armand Duval, le lettere di Marguerite, il suo diario). Anzi l’“effetto realismo” era paradossalmente enfatizzato dal fatto che il pubblico francese era consapevole di trovarsi di fronte a un “roman à clef”: cosa c’è di più realistico di un pezzo di autobiografia appena travestito per ragioni di pudore e di un’identità appena mascherata per ragioni di opportunità?
La storia che racconta, sostiene con finta modestia Dumas l’autore-personaggio, «non ha che un merito (e probabilmente glielo contesteranno): quello di essere vera». Agli occhi dei lettori ebbe sicuramente anche il merito di far loro da guida, sotto l’etichetta della buona letteratura e dell’intento moraleggiante, in un tour voyeuristico nella vita segreta del bel mondo e del “demi-monde” (l’invenzione dell’espressione la si deve allo stesso Dumas), dei piaceri e dei dispiaceri della vita delle “donne di vita”, non diversamente da come facevano nelle stanze di rue d’Antin all’inizio del romanzo le virtuose signore parigine che mai si sarebbero immaginate che cosa si era venduto lì dentro.
Ma se oggi più che allora, quando era la registrazione realistica dei rapporti con le donne di piacere, il discorso “economico” del romanzo assume un forte senso di politica dei sessi, c’è almeno un segnale molto preciso del fatto che la storia vera di Marie e quella fittizia di Marguerite parlano anche e soprattutto di libertà sessuale. Basta leggere le spiritose e autolesionistiche tirate di Marguerite nel romanzo. E basta soffermarsi sulla scelta (imprudente, secondo molti, per il confronto che suscita con il romanzo di Prévost) del libro che Armand regala a Marguerite, che diventa la sua lettura prediletta, e che, acquistato da Dumas all’asta dei beni di Marguerite, mette in contatto Armand e il narratore.
Manon Lescaut, che Armand dedica con la parola “umiltà” a Marguerite dopo un ennesimo scontro sulle di lei scelte di vita, è un libro sulla libertà assoluta dalle regole, anche quelle della morale sessuale corrente. E viene da pensare che, sotto la sua contabilità amorosa, Dumas fils parli dopo tutto anche di un nuovo modo di guardare ai rapporti tra uomo e donna, che immagini un sistema più liberato e paritario di “possesso” amoroso e che tuttavia non osi esprimerlo fuori dalla gabbia della convenzione e dei ruoli; facendo dunque di Marguerite una mantenuta, una donna che contraddittoriamente rispetto ai suoi sentimenti e automaticamente rispetto alle convenzioni si include in una categoria di «donne come me», di non «esseri» ma «cose». E che allo stesso tempo si ribella alle regole del gioco, segue le intermittenze del cuore, ignora gli ammiratori ricchi e stupidi, ascolta le proprie passioni. Tanto che, se Manon muore in un deserto, di Marguerite, abbandonata da Armand, – che al contrario del più bravo Alfredo al momento del bisogno si trova in viaggio lontano – Dumas dice che muore in un «deserto del cuore» (c’è un briciolo di autobiografico pentimento nell’espressione?).
Meno sentimentale della scrivente, Roland Barthes vede come «mito centrale» del caso Gautier non l’Amore, ma il Riconoscimento. E vede la rinuncia di Marguerite ad Armand finalizzata al desiderio di «farsi riconoscere dal mondo dei potenti» e da Armand, postumamente, con il suo sacrificio.
Ma nonostante il pessimo rapporto di Marguerite con la musica (tra le sue tante virtù di cultura, di raffinatezza e di eleganza, la vedremo protestare che non si possono suonare otto diesis di seguito…) il suo vero riconoscimento le viene da Verdi. Il quale vide La signora delle camelie in scena il 2 febbraio 1852 al Vaudeville, e fu certamente toccato dalle risonanze che aveva con la sua storia d’amore fuori dal matrimonio con Giuseppina Strepponi la storia di questo difficile amore fuori dagli schemi (se letto fuori dagli schemi). Al proposito è illuminante la lettera che Verdi, dodici giorni prima della fatale rappresentazione che lo spinse alla realizzazione della Traviata, aveva scritto a suo suocero Antonio Barezzi, per mettere fine ai pettegolezzi bussetiani e spiegare le sue ragioni e la sua volontà di amare Giuseppina:
Io non ho nulla da nascondere. In casa mia vive una signora libera, indipendente, amante come me della vita solitaria, con una fortuna che la mette al coperto da ogni bisogno. Né io né lei dobbiamo a chicchessia rendere conto delle nostre azioni; ma d’altronde chi sa quali rapporti esistano tra noi? Quali gli affari? Quali i legami? Quali i diritti che io ho su di Lei e Ella su di me? Chi sa s’Ella è o non è mia moglie? Ed in questo caso chi sa quali sono i motivi particolari, quali le idee da tacerne la pubblicazione? Chi sa se ciò sia bene o male?…
Non è certo un caso se la Traviata, che Verdi scrisse in pochi mesi, durante le prove del Trovatore, è stata, con l’eccezione di Stiffelio, il primo melodramma verdiano di ambiente moderno. «Un soggetto d’epoca», scriveva Verdi a un amico. «Un altro forse non l’avrebbe fatto per i costumi, per i tempi e per mille altri goffi scrupoli…». Quelli del bruciante realismo, del “verismo” della storia? Verdi, in ogni caso, si lasciò convincere a retrodatare la Traviataal Settecento, e la si vide rappresentata in Italia nei costumi del 1850 solo alla fine del secolo.
La prima della Traviata alla Fenice, il 6 marzo 1853, fu secondo le parole stesse di Verdi, un «fiasco». «La colpa è mia o dei cantanti? Il tempo lo dirà». Forse i cantanti non saranno stati i migliori. Forse la colpa fu anche della linea opulenta di Fanny Salvini-Donatelli, che era difficile immaginare nel ruolo di una tisica vicina a morire: ma era un’epoca di cantanti in carne, e sarebbe stato impossibile essere fedeli al testo di Dumas, che suggerisce una Marguerite modernamente magrissima e alta, addirittura preoccupata di mascherare questa magrezza così poco alla moda con le illusioni di un abbigliamento attentamente studiato. Forse fu la fretta di soli tredici giorni di prove. Tutte cose che un musicologo potrebbe illustrare meglio, salvo ricordare che solo quattordici mesi dopo, presentata nuovamente alla Fenice, con cantanti migliori, la Traviata ebbe un enorme successo destinato a durare sino ad oggi, anche attraverso le varie eclissi verdiane.
Marguerite tuttavia, per diventare Violetta, aveva subito una modesta ma fondamentale metamorfosi. Il libretto di Piave non parla certo di denaro come fa il testo di Dumas, e nella Traviata sono in gioco meno le convenzioni sociali che la forza del sentimento amoroso di Violetta. Come il dramma di Dumas, che eclissò in notorietà, anche laTraviata fu accusata di immoralità e guardata con sospetto. Ma regalò a Marguerite ormai transustanziata in Violetta, quello che Dumas non aveva osato darle sino in fondo: una profonda sensibilità e tenerezza amorosa che si traduce in una grande nobiltà di sentimenti. Giustamente Alfredo, anziché andarsene permalosamente in viaggio in Oriente come fa Armand quando si crede ingannato da Marguerite, è accanto alla sua amata nel momento supremo in cui – come scrive Massimo Mila – «Violetta muore come un eroe e un martire». Sullo schermo, austeramente interpretata, dopo altre meno smaglianti ma numerosissime signore, da Greta Garbo, nel film di George Cukor, ribattezzata Camille, all’americana, l’ormai mitica eroina muore, grazie ai primi piani, ancora più eroicamente, spalancando gli occhi. Chi volesse, potrebbe prenderla per la metafora di una tardiva presa di coscienza della follia di dannarsi e morire per un amore non abbastanza apprezzato.
IRENE BIGNARDI
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Ciao Yuman, ho visto che hai già scritto nella sezione del gruppo di Torino. Speriamo di vederti anche sul forum
Buonasera, mi sono appena trasferito a Torino. Mi piacerebbe partecipare. Dove e a che ora si tiene l’appuntamento di luglio/agosto e che libro verrà discusso. Grazie
Ciao Ludofrog, per contattare il gruppo di Lecce, scrivi in questo TOPIC
Ciao a tutti! Chi posso contattare per avere delle info sui prossimi incontri dei Pasticciotti Letterari? Grazie ✨
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