mariachiart post=58313 userid=6958Thérèse lascia dietro di sé davvero tanta inquietudine.
Condivido questo con te Maria Chiara (il tuo nome è giusto?)  e penso che l’obiettivo di Mauriac fosse proprio quello di lasciare nel lettore questo senso d’inquietudine che tu descrivi. Un senso d'inquietudine esistenziale e religioso vissuto da lui stesso in quegli anni.
Sappiamo che Mauriac era cattolico e da quanto riportato nella bella introduzione scritta dal traduttore dell’edizione inglese che sto leggendo (non sono riuscito a trovare una versione ebook in italiano), egli stava attraversando un periodo di crisi quando scrive Thérèse, come un po’ tutta la generazione alla quale appartiene. Quella “generazione perduta” degli anni a cavallo tra le due guerre mondiali che non si rispecchia più nei valori tradizionali della società e della famiglia che hanno per tanto tempo definito le epoche precedenti. 
Non per altro Mauriac viene “attaccato” dalla stampa cattolica del tempo come uno scrittore “ossessionato” da personaggi caratterizzati da una “psicologia perversa”. In un libro pubblicato nel 1965 dallo studioso accademico Cecil Jenkins, l’autore riporta una conversazione in cui Mauriac afferma (la traduzione è mia): “
Thérèse Desqueyroux è infatti un romanzo di rivolta. La storia di Thérèse rappresenta tutto il mio dramma, una protesta, un grido… E potrei facilmente dire, anche se non ho mai preso in considerazione l’idea di avvelenare qualcuno, che Thérèse Desqueyroux sono io.”
E poi ancora, in una conversazione con il figlio Claude: “
In un certo senso, Thérèse Desqueyroux sono io. Ho rappresentato in lei tutta l’esasperazione che ho provato nei confronti di una famiglia che non riuscivo più a tollerare”. 
Allo stesso tempo, però, con l’evoluzione del personaggio di Thérèse, col suo trasformarsi in un’individualità liberata dal giogo di tutto ciò che rappresenta un’imposizione sociale o un dovere religioso, Mauriac sembra voglia suggerirci che esiste la possibilità di poter trovare la nostra dimensione, quello che costituisce la nostra vera essenza e di "rompere" con la tradizione se la percepiamo come un elemento soffocante che ci sopprime invece di darci la possibilità di crescere e prosperare interiormente. Certo ci vuole forza e soprattutto coraggio e né Mauriac né Thérèse, alla fine, ci dicono quale sia il percorso giusto da seguire, ma è comunque questo il messaggio che ho letto nel libro. 
Per rispondere alla domanda di Paola sulla “continuazione” di Thérèse, e sempre facendo riferimento all’introduzione che ho citato in precedenza, sembra che i due racconti e romanzo successivi elencati da Vincenzo siano una sorta di “mea culpa” da parte dell’autore per essersi allontanato dalla dottrina ed insegnamenti cattolici durante il suo periodo di crisi. Pare che il giudizio morale nei confronti di Thérèse contenuto in queste opere successive sia così forte che Jean-Paul Sartre, dopo aver letto “La fine della notte”, sente il bisogno di attaccare Mauriac definendolo un "puro moralista" e negargli il titolo di romanziere. Spero di non aver scoraggiato nessuno nel voler forse leggere anche queste opere successive per valutare personalmente 
. Io mi fermo alla prima perché la ritengono l'espressione autentica del travaglio che Mauriac attraversa e della "soluzione" che trova per poter superare questo periodo di crisi.
Infine, anch’io come te, Graziella e Margarethe penso che il personaggio di Jean sia solo un elemento funzionale e simbolico del racconto per confermare in Thérèse, come anche tu hai colto, l’esistenza di un “modo diverso di vivere” ed intensificare in lei il desiderio di volerlo ottenere.