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Una mano amputata, viva, fluttuante sulla desolazione di un paesaggio nero. Un occhio gigante spalancato nel cavo del palmo, a rendere quella mano un'inedita creatura aliena. Shock.
Hai di fronte Emblemata, la raccolta di immagini erudite che ha fatto la fortuna cinquecentesca di Andrea Alciato. E l'erudizione arriva, con sfoggio manierista, nel motto sottostante: «Bisogna vivere con equilibrio, non credere alla leggera». E più in basso ancora, rimata e doviziosa, la spiegazione dell'immagine, la sua morale. La sua morte.
«I libri di emblemi», commenta Calasso chiudendo il paragrafo, «sono veri ossari della simbolica».1

Lettore, ti ho promesso un viaggio nell'"Opera senza nome"; ma attardiamoci ancora un istante qui, sul pontile di fronte alla distesa marina, prima del salto fatale. Qui riposano I geroglifici di Sir Thomas Browne, 1965, la tesi di laurea del Direttore di Adelphi. Già si delineava in lui l'interesse per gli autori del margine, però obliqui, così obliqui da allungare un piede nella griglia della pagina e farla incespicare. Dotto del barocco, medico, esoterico dalla prosa purpurea, Thomas Browne si esprimeva perlopiù in citazioni e florilegi, tendendo "alla poetica cinese chu-chü […] che prescriveva componimenti in cui ogni frase doveva essere tolta da diverse opere altrui".2 Studiò i geroglifici, la lingua senza suono. Ancora lontani dalle traduzioni scientifiche, i pittogrammi dei popoli antichi facevano allora pensare a un'espressione diretta, quasi che la faccia della natura si fosse impressa nelle linee come quella del Messia nel velo di Veronica. La confusione di Babele non aveva ancora generato il marasma degli idiomi. Adamo si esprimeva in geroglifico. Nessuna parola astratta poteva confondere la verità delle cose.
L'emblema, l'immagine sporcata del verbo che spiega, è l'anti-geroglifico. C'è un rapporto, dice Calasso, fra la decadenza del mondo e la confusione dei linguaggi. E c'è Browne, catalogatore spaventato, che compone elenchi enciclopedici e tesse costruzioni per arginare il senso di morte che minaccia il mondo. Dove c'è horror vacui c'è spesso il terrore del disfacimento.
E Calasso?

1983. "Questo libro è dedicato al dedicare", così recita il primo paragrafo de La rovina di Kasch3. Italo Calvino, memorabile commentatore, riassume così il primo tassello del mosaico letterario: "La rovina di Kasch tratta di due argomenti: il primo è Talleyrand, il secondo è tutto il resto."
E in quel "tutto il resto" il pensiero sbianca e barcolla.
Siamo perlopiù in Francia, siamo perlopiù negli anni della Restaurazione, quel crinale storico a seguito del quale gli Stati furono sanciti e il mondo che conosciamo entrò ufficialmente nella modernità. Charles-Maurice de Talleyrand-Périgord, diplomatico voltagabbana, vescovo suo malgrado, primo trasformista politico – uomo di corte, uomo della Rivoluzione, ministro napoleonico, orchestrante del Congresso di Vienna – il nobile che si era guadagnato l'appellativo di "diavolo zoppo" è figura cardine di questo romanzo che non è saggio, di questo saggio che non è romanzo. In lui, cerimoniere di questo testo come lo fu in vita della Francia, si riassumono le caratteristiche di un'epoca che ancora ci avvolge: quella della grande incertezza, quell'"innominabile attuale" che già qui si menziona, nel primo libro.

Opera corale, opera sonora. Se nello studio su Thomas Browne aveva già parlato del cataclisma della Torre di Babele, qui Calasso ci presenta il marasma degli idiomi in tutto il suo splendore. Lettere, stralci di saggi, occasionali barbagli di poesia. Latino, francese, tedesco che s'intrecciano. Citazioni di Chateaubriand, di Sainte-Beuve, di Fénelon, con la logica del florilegio già osservata in Browne. E quelle visioni aliene e improvvise, sottratte al mondo del romanzo – la vecchiaia di Madame Récamier, musa di David ormai quasi cieca; le depressioni di Luigi XV, tra gli ultimi re dell'Ancien Régime. Microscopiche stelle che tremolano nel buio, in procinto quasi di staccarsi, finché l'esile costellazione non si delinea a collegarle: quella di una modernità senza più dèi, prostituita alla logica cartesiana, prigioniera della "sua aurea gabbia tremante", che pure le serve per mantenersi intera nel caos4. Se l'umanità ha potuto crearsi volontariamente una cella, se ha potuto arredarla dei drappi più belli pur di ignorare quel "sentimento oceanico" che fu croce e delizia del Romanticismo; se poteva sui tavoli viennesi spartirsi il mondo come una torta, facendo leva su legittimità campate sulla favola (perché cosa, se non una favola, può giustificare il dominio di un uomo, di una dinastia sulla totalità degli individui?); Calasso non può resistere all'imbuto che lo risucchia indietro, all'origine dello sfacelo, in cerca del mito che lo giustifichi.
Silenzio improvviso, pagina 148. La leggenda della rovina di Kasch, che dà nome all'opera, arriva soltanto a metà volume:

«Il Nap di Naphta era l'uomo più ricco della terra. Ma la sua vita era la più breve e la più triste fra quelle di tutti gli uomini.»5

Un re condannato a morire ogni volta che i sacerdoti scovano il segno nel cielo. E così da sempre, finché non giunge Far-li-mas, il narratore dall'Oriente. Far-li-mas, Sherazade delle origini, che con l'intreccio e le parole distrae il rito e sopprime i sacerdoti. Ecco che il verbo si imprime sul mistero del geroglifico, lo instupidisce nell'emblema. Gli dèi sono così perduti e il patto con l'Oscuro Oltre viene meno. La cosa senza forma e senza nome si intrufola nelle immagini, nel perturbante, nell'inconscio collettivo. Nelle grida esaltate del Foscolo dei Sepolcri, nello Spleen di Baudelaire. Colto da risate isteriche, l'essere umano del nostro tempo ricerca la verità nei visceri degli animali vivisezionati. Il sacrificio è costante, ma ammantato di idee, non di dèi: una nazione alla guerra in nome della Pace, una rana soppressa per la Conoscenza Scientifica. Il discorso di Calasso avanza anacronisticamente, dal passo vedico alla glossa a Marx. I paragrafi brevi, sul modello delle folgori dei testi di Nietzsche, si rincorrono sulla base di associazioni di idee. La struttura si sbriciola, il canto si articola tra le macerie di questa Babilonia:
«…appariva, sul fondo dei piccoli appartamenti di Versailles, come un grande e fosco e triste bambino, con qualcosa nel suo spirito di arido, di malvagio, di sarcastico…»6
Lettore, hai riconosciuto Luigi XV?

«In origine il potere era diffuso in un luogo, aura e miasma.
Poi si raccolse in Melchisedech, sacerdote e re.
Poi si divise fra un sacerdote e un re.
Poi si raccolse in un re.
Poi si divise fra un re e una legge.
Poi si raccolse nella legge.
Poi la legge si divise in molte regole.
Poi le regole si diffusero in ogni luogo.»7

Lettore, La rovina di Kasch è la storia di come siamo diventati moderni. La rovina di Kasch è il concerto sul ponte del Titanic. La rovina di Kasch è la prima battuta di un canto che cantiamo ancora, pur senza più interrogarci in merito. La rovina di Kasch è Richard Cobb e il suo interesse per le vicende minime, lui che dispiegava i grezzi memoriali di chi la Storia la subisce – gli invisibili, i singoli, gli emarginati. Questo libro si fa interprete del suo metodo: non ti racconta niente, si limita a sparpagliare i pezzi. Sono migliaia, multicolore. E quando due si uniscono, è subito meraviglia.

«Una storia intermittente, quantica. Espansione di tracce fosforescenti. Vasta oscurità protettiva. Barbagli elettrici. Accertabilità della singola scena, anche della polvere posata sui mobili. Assoluta incertezza della sequenza. Vaniloquio delle forme. Riposo di serra notturna.»8

E adesso dove si andrà?

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1 Roberto Calasso, I geroglifici di Sir Thomas Browne, Adelphi, 2018, p. 95
2 Ivi, p. 25.
3 Roberto Calasso, La rovina di Kasch, Adelphi, 1983 (ed. 2021), p. 13.
4 Ivi, p. 23.
5 Ivi, p. 148.
6 Ivi, p. 357.
7 Ivi, p. 79.
8 Ivi, p. 225.

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Bibliografia:
Roberto Calasso, I geroglifici di Sir Thomas Browne, Adelphi, 2018.
Roberto Calasso, La rovina di Kasch, Adelphi, 1983 (ed. 2021).
Elena Sbrojavacca, Letteratura assoluta. Le opere e il pensiero di Roberto Calasso, Feltrinelli, 2021

(articolo a cura di Sharon Tofanelli)

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